A Perfect Day Live Report

Castello Scaligero, Villafranca di Verona

31 agosto – 1-2 settembre 2012

Quando mi capita di assistere ad eventi in luoghi del genere penso a che cosa penserebbe un abitante dell’epoca (tredicesimo secolo in questo caso) nel trovarsi catapultato, come in un romanzo di Twain in verso opposto, nel mezzo di una folla vestita in modo strano, circondato da strutture sconosciute e quasi diaboliche che producono cibi, bevande e rumore. Estremizzare la soggettività può dare una mano ad analizzare meglio, molti al riguardo utilizzano anche l’ottica fanciullesca, liberandosi dal giudizio inevitabilmente parziale di chi ormai di concerti ne ha viste a decine.

Siamo a Villlafranca di Verona, nel Castello Scaligero: gli ingressi sotto e a fianco della torre con l’orologio ci conducono nel grande cortile interno al cui lato ovest si trova il palco e nel mezzo un vasto prato dove la gente si sta già assiepando in vista dell’ormai imminente inizio. Saranno tre giorni nei quali la pioggia farà da protagonista cadendo o solo minacciando di farlo; già dal primo giorno però sono tutti attrezzati con ombrelli, mantelle e stivali, pronti a preoccuparsi solo delle performance sul palco, anche lui ben coperto e strutturato per evitare spiacevoli ritardi o cancellazioni.

Giorno 1:

Venerdì è il giorno dell’apertura del festival e il giorno dell’attesissimo concerto dei The Killers con i loro fans già in trepidante attesa fin dalle 16 (ora di apertura dei cancelli) mettendo in mostra fin da subito uno dei problemi fondamentali di questa tre giorni e in generale di tutti i festival musicali: il rispetto verso gli altri gruppi. Non è bello vedere gente che vive la giornata solo come una lunga attesa sopportata solo per guadagnare le prime file e ancora meno bello vedere il loro scarso interesse e rispetto verso band non meno talentuose dei loro idoli ma forse solo meno spinte dallo show business. Tant’è che puntuali salgono sul palco i DZ Deathrays, il duo australiano chitarra/batteria che mescola il metal al punk allo stoner al grunge, più disordinati dei White Stripes ma non meno capelloni e carichi di furore musicale. Mezz’ora di concerto per scaldare il pubblico con pezzi di sicura presa come "The mess up", "Gebbie street" o ancora "Dollar chills" che avrebbero meritato un attenzione maggiore perchè la capacità di reggere un palco del genere e suono così pieno solo con chitarra e batteria non è da molti. Un rapido cambio di set, regolazione delle spie e delle accordature ed ecco che, insieme alla pioggia, inizia lo show dei Temper Trap (connazionali dei DZ Deathrays), puntuale alle 18e25. Salgono sul palco un po’ timidi i 4 ragazzi di Melbourne (5 per l’occasione) che però non impiegano molto a sciogliersi e lanciare il loro sound coinvolgente che mescola ritmo a melodia e, anche quando vira verso il commerciale, riesce a non deludere. La loro presenza sul palco è piuttosto compassata e si limita agli ondeggiamenti del frontman Dougy Mandagi (che omaggia Dylan con la sua t-shirt) e ai virtuosismi acrobatici del bassista, concentrati e puliti quasi come avessero messo su un cd. Il pubblico risponde di pari passi al loro sciogliersi e sulle note di "Love lost" e "Miracle" la partecipazione è totale. Il finale è in crescendo dapprima con "Drum song" rilanciata con il ritmo del tamburo suonato dal cantante nella parte frontale di palco sotto la pioggia e dalle linee del bassista sempre più ispirate, poi con la famosissima e conclusiva "Sweet disposition" che esalta davvero il pubblico che dalla pioggia non stava avendo più scampo; ore19e30 salutano ed escono tra i meritati applausi non dimenticando di fotografare il pubblico con il loro smartphone come a ringraziarlo dell’accoglienza. Alle 20e20 si cambia continente e si riparte con i nordirlandesi Two Door Cinema Club, un gruppo che ha fatto molto parlare di se oltremanica e questo significa grande successo nel continente a scoppio ritardato. Il loro suono indie sarà anche inflazionato ma la loro esibizione dal vivo non delude gli amanti del genere, soprattutto in questo periodo in cui c’è il nuovo album "Sleep alone" da promuovere. Due chitarre e un basso (il turnista alla batteria) con qualche passaggio alle tastiere per una lineup standard e una presenza sul palco anglicanamente compassata che, giustamente legata al ritmo, non coinvolgerà mai del tutto. Per fortuna la musica va in loro aiuto e il pubblico segue e riconosce fin da subito i pezzi che sono ormai delle hit: "Undercover Martyn" e "Do you want it all?" tra le prime eseguite portano in clima. Proseguono il loro show tra i suono stretto e appuntito delle chitarre alle ritmiche picchiettanti che emergono in brani come "Next year" o "What you know" cantata dal pubblico come un successo decennale. Il giovane frontman Alex Trimble, che ha anche avuto l’onore di partecipare alle cerimonia d’inaugurazione delle olimpiadi 2012, si limita ad annunciare le canzoni o a sottolineare come sia la prima volta che suona in un castello e per il resto rimane concentrato sulla performance e il trittico finale "Someday", "Come back home" e "I can talk" è la cosa migliore che poteva offrire al generoso pubblico del festival.

Salutano il pubblico e lasciano spazio ad un competo stravolgimento della scenografia giusto per sottolineare, a chi ancora non avesse capito, che per il concerto successivo ci si avvicina al mainstream, tanto più adesso che c’è un nuovo album "Battle born" da presentare: pannello a schermo digitalizzato dove s’intravedono un profilo di monti, palco ad ampio raggio, griffato Killers, batteria un po’ laterale per lasciare spazio di movimento al frontman Brandon Flowers. Alle 22e20 in una nebbia rossa e blu entra il quartetto di Las Vegas e parte subito a mille con "Runaways" scatenando il pubblico che ormai mal sopportava l’attesa per i propri beniamini. Infilano poi subito dietro "Somebody told me" e con "Spaceman" lo show diventa totale tra la partecipazione degli spettatori e Brandon che si muove verso gli altri musicisti, chiama il pubblico ai cori e tiene il palco con sapienza senza dover necessariamente strafare, Stoemer e Keuning che piano piano prenderanno confidenza con la serata e Vannucci solido e spettacoloso a mantenere alti i ritmi. Quando attacca "Reasons" sparisce la proiezione delle montagne sullo schermo e si passa allo show di luci che culmina in fuochi d’artificio che cadono dall’alto dietro il quartetto: i fan in realtà si placheranno un attimo solo dopo una splendida "Human". Un accenno di cover dei Dire Straits e si rilanciano a tutta velocità verso il finale con "Mr.Brightside" e il pezzo più spettacolare della serata, quel "All these things i’ve done" dove la proiezione del video ufficiale sullo schermo e il pubblico che canta ad una sola voce -I got soul, but I’m not a soldier- rendono il momento davvero indimenticabile e il brano un giusto finale prima dei bis. Non ci mettono molto a rientrare e ripartono di filata con "Bones", "Jenny was a friend of mine" e chiudendo con altri fuochi d’artificio (musicali e non) durante "WYWY". Salutano i pubblico non ancora sazio e lasciano il castello nel vocio adrenalinico di chi già si chiede quando e dove ci sarà il prossimo concerto italiano. Ad un orecchio (e ad un occhio attento) non fugano ma anzi alimentano il dubbio se sia veramente il gruppo più importante nel panorama alternativo degli ultimi 10 anni o solo un’ottima band gonfiata e spinta oltremodo da film, serie televisive e quant’altro; di sicuro ha chiuso degnamente questa prima giornata e anche la pioggia si è fermata per ascoltarli.

Giorno 2:

Due cose stonano da subito in questa seconda giornata: il tempo e il programma. Nel primo caso la pioggia non darà tregua e renderà il terreno una distesa di fango ben più melmosa del giorno precedente, per quanto riguarda la lista dei gruppi che si esibiranno, stonano i Mogwai tra i Vaccines e i Franz Ferdinand perchè nonostante l’amicizia e l’identica provenienza rispetto agili headliner, hanno un suono lavorato in maniera diversa e, forse, li avrei visti meglio nell’ultima giornata. Essendo il sabato sera della notte bianca nella paese di Villafranca i concerti inizieranno mezz’ora dopo e infatti ecco che puntuali alle 17e45 salgono sul palco i Palma Violets. Il quartetto londinese mostra subito di trovarsi a suo agio davanti ad un pubblico già piuttosto numeroso e tra ricordi di Joy Division e The Libertines mostrano la loro personalissima rivisitazione della new-wave e del post-punk. I pezzi in scaletta sono tutti piacevoli e senza una vera hit, se si eccettua solo "Chicken clippers" e la chiusura affidata a "Fourteen", nelle quali provano a scaldare e ad incitare il pubblico al pogo o a seguire il ritornello con cori e battito di mani. Purtroppo per loro la pioggia e l’attesa per i concerti successivi non libereranno mai il pubblico come si sarebbero aspettati e chiudono la loro mezz’ora di show con, credo, qualche rammarico. Un’oretta di attesa e alle 19e20 salgono sul palco gli attesissimi The Vaccines, concittadini dei Palma Violets ma con un seguito ben più ampio e consolidato nonostante i soli due anni di attività. Il nuovo album "Come of age" svetta nelle classifiche UK al pari di "Sleep alone" dei Two Door Cinema Club e le grida del pubblico al loro ingresso come se ci trovassimo di fronte ad una famosa punk band anni ’90 non ne sono che una conferma. Per i quattro ragazzi il palco è davvero un posto dove mettersi in mostra e galvanizzare il pubblico: pezzi tirati per far ballare, ammiccamenti, pose per fotografi e il cantante Justin Young, con il suo sguardo un po’ allucinato, trascina i presenti con la sola impostazione della presenza. Tutti brani sono ballabili e il pubblico non si tira indietro pogando sotto la pioggia scrosciante sicuri successi come "No hope", "Teenage icon" e lo splendido uno-due "Post break-up sex" e "All in white". Cartelli e striscioni si levano in loro onore e i ragazzi sorridono compiaciuti rilanciando continuamente brani veloci che dall’indie sconfinano facilmente nel punk. Gran finale con "If you wanna", "Bad moon" e "Norgaard" con tutto il prato del castello che ondeggia in un ballo sfrenato e saluta Justin, Freddie, Arni e Pete per le emozioni che hanno saputo regalare. Neanche mezz’ora di preparazione del palco ed ecco che si cambia stile e genere all’ingresso dei Mogwai, il gruppo scozzese ormai cardine della scena post-rock che vede la sua esibizione in maniera totalmente diversa dai due gruppi precedenti (e da quello successivo). Stuart, Dominic, Martin, John e Barry (affiancati nei live da Luke al violino) restano sul palco molto distanti tra loro, interagiscono il meno possibile tra loro lasciando a Stuart le poche chiacchiere con il pubblico. Poco male perchè a chi li segue interessa la performance e i Mogwai in questo raramente deludono partendo immediatamente con due pezzi da novanta come "How to be a Werewolf" e "I’m Jim Morrison, i’m dead" e il pubblico inizia ad ondeggiare estasiato. Proseguono il loro personale percorso sul filo del noise che ha altri due apici in "White noise" e "Auto rock", quest’ultima ormai hit riconoscibile fin dai primi accordi. Da qui tutto un salendo musicale aiutato anche dall’ingresso di una 12 corde che in "Mexican Grand Prix" esplode insieme all’elettronica. Il finale è tutto uno spettacolo da "Mogwai fear Satan" che ha quello slow&go che non t’aspetti mai così bello e il finale di "We’re no here" nel quale lasciano il pubblico davanti ad un palco vuoto ma con noise e feedback ancora aperti. Prima dell’ultima traccia Stuart ha salutato il pubblico passando metaforicamente il microfono ai Franz Ferdinand (tra i due gruppi c’è molta amicizia) e bastano infatti tre quarti d’ora di preparazione palco per vedere all’opera il secondo gruppo scozzese della serata.

La scenografia è molto più semplice rispetto a quella degli headliner del venerdì: batteria rialzata, luci rosse, qualche griffe qua e là e un grande telo bianco sullo sfondo con il famoso ritratto di Gavrilo Princip a sottolinearne il legame con l’arciduca Francesco Ferdinando. La partenza del quartetto con "Do you want to" è una fiammata improvvisa che scatena il pubblico sulle ritmiche di Bob e Paul mentre Alex e Nick si dimostrano subito in sintonia con l’atmosfera e il pubblico. Proseguono con sprazzi di puro indie-rock tenendo il ritmo alto con "Tell her tonight" e "Walk away" prima che il frontman Alex si soffermi a descrivere l’atmosfera, il luogo, i colori che tanto affascinano chi ci si ritrova a suonarvi dentro in mezzo alla folla entusiasta. C’è spazio poi per un classico come "The Dark of the Matinee" seguito da "Scarlet & blue" e "Michael" durante la quale Alex scende dal palco verso la folla dimostrandosi sul palco un leader coi fiocchi. "Wticsfifl?" è allungata. elettronica e introduce "Take me out" il primo successo che il pubblico canta a squarciagola. Il finale prima dei bis è lasciato a "Outsiders" che viene rivista nel live con tutti e quattro i componenti intorno alla batteria a picchiare duro in un drum-solo sincronizzato con le luci di grande impatto emotivo; bacchette al pubblico e l’uscita di scena. Sosta prima dei bis che dura poco perchè la folla li continua a chiamare a gran voce e i ragazzi tornano con "Jacqueline", la nuova "Trees&animals", "The Fallen" e il finale lasciato alla splendida "This fire" nella quale tutti e quattro si lasciano andare e dialogano con il pubblico che canta a cappella il ritornello. Salutano ed escono definitivamente mentre la folla ancora fatica ad ammettere che il concerto è finito e, mentre si districa nel fango del prato verso l’uscita, continua a cantare quel ritornello che risuonerà nella loro testa per tutta la notte: -this fire is out of control, i’m gonna burn this city, burn this city-

Giorno 3:

Domenica, ultimo giorno di concerti solo cronologicamente visto che i biglietti per questa giornata sono sold out già da un mese e questo è dovuto principalmente agli headliner della serata: i Sigur Ros.
Il tempo volge al bello ed è stata gettata della sabbia su tutto il prato per asciugare il più possibile il fango, scelta quanto mai azzeccata perchè la folla è già numerosa prima dell’apertura dei cancelli. Per questa vale la stessa analisi del primo giorno (che poi è applicabile anche al secondo) inerente alla mancanza d’interesse e rispetto nei confronti delle altre band. Peccato perchè alle 17e15 (si è tornati all’orario standard) salgono sul palco gli Alt-J, uno dei gruppi più innovativi e particolari del panorama d’oltremanica. Sono quattro giovanissimi provenienti da Cambridge che propongono il loro album di debutto "An Awesome Wave" fatto di musica sperimentale elettronica-folk, indie e anche con quel gusto pop che non guasta mai. Salgano sul palco un po’ timorosi ma bastano pochi minuti per capire che la loro musica è tutt’altro che timida: mostrano tracce più barrettiane come "Interlude1" o "Tesselate", altre come "Dissolve me", "Bloodflood" o "Fitzpleasure" giustificano a pieno l’etichetta folk-step che qualcuno gli ha coniato su misura.
Voce solista un po’ canzonante, pezzi cantati a due voci, cori, nacchere e una ricerca della sperimentazione che ha già in sè un alto grado di maturità, impensabile per una band così giovane. Quando escono il pubblico li saluta calorosamente dando l’impressione di aver capito dopo quella mezz’ora di musica che di quei quattro ragazzi sentirà ancora parlarne. Cambio set e alle 18e25 si passa di genere oltre che di sponda della Manica perchè sale sul palco la band belga dei dEUS. Trascinati dal frontman Tom Barman (nomen omen) partono subito forte nonostante siano, anagraficamente, la band più vecchia di tutta la tre giorni, mentre il pubblico che da un lato aspetta i Sigur Ros e quel genere di musica e dall’altro lato ha ancora in testa la delicatezza degli Alt-J, non riesce a lasciarsi andare al rock dinamico dei cinque. Questo poco importa a Barman che si agita e dialoga (musicalmente) con il chitarrista Mauro Pawlowski che a sua volta mette in mostra molta precisione e molto groove mentre gli altri tre lavorano le ritmiche e le tastiere per supportare lo show dei due. L’impatto di "Constant now" e di "Oh your God" è ancora quindi relativo e forse solo dopo la più acustica "Instant street" il pubblico inizia a collaborare e Barman prende fiducia dialogando molto tra un brano e l’altro, lanciando "Sirens" <<for all the vikings>> e finalmente "Fell off the floor, man" in collaborazione con la folla finalmente a suo agio. Peccato che siamo ormai all’epilogo nonostante Tom vada per le lunghe con alcuni brani sforando il suo tempo già dall’annuncio dell’ultima canzone "Roses" che, a suo dire, li lega agli anni ’70. Alle 19e40 finisce lo show ed emerge chiaramente la consapevolezza che i dEUS sono un gruppo che dal vivo rende molto di più che da cd e questo è il miglior complimento che si possa fare alla loro performance. Il tempo di ripulire il palco dalla strumentazione elettronica dei belgi e sale sul palco la penultima band in programma in questa tre giorni e come ieri si cambia genere musicale passando al blues cantautorale della Mark Lanegan Band. Il loro concerto è stato il più discusso della tre giorni, non tanto per la qualità musicale poichè qualche problema ai bassi in quella giornata c’è stato per tutti gli show così come nel primo giorno problemi sul livello sonoro delle parti vocali, ma per l’approccio e il rispetto nei confronti del pubblico. L’ex cantante degli Screaming Trees è salito sul palco quasi di corsa accompagnato dalla band (chitarra, chitarra+tastiera, basso e batteria), si è ancorato con la mano sinistra in all’asta del microfono, gamba destra semi piegata in avanti, testa leggermente inclinata verso destra e in quella posizione ha cantato le sedici canzoni previste dalla scaletta, ha ringraziato ed è scappato via. Niente da dire sulla sua performance, il suo timbro garage ti entra dentro, e su quella degli altri musicisti, chitarrista solista su tutti, ma molto da obiettare sul rapporto con il pubblico: un live si basa soprattutto sul contatto con la folla e molti non hanno gradito. Quando però si ascoltano brani come "The gravedigger’s song" o "Wedding dress" tutto l’ordine delle cose viene ristabilito e ci si riconcilia con le sue parole e la sua musica. Personalmente, nel suo caso, poco m’importa se scappa via un po’ bruscamente ma il blues sporcato di grunge di "Quiver syndrome" e gli assoli di chitarra in "Devil in my mind" o di "Black rose way" e la parte finale che da "Ode to say disco" ti conduce fino alla sublime "Methamphetemine blues" valgono qualche ruvidità di troppo.

Adesso il palco cambia completamente, via il telo nero che copre il retro, dentro pianoforte, armonium, xilofono, flauti, tromba, violini, lampadine e telecamere pilotabili vicino ad ogni postazione musicista e tre schermi laterali: stanno per arrivare i Sigur R�s. Il gruppo post-rock islandese sale sul palco che non sono ancora le 22e20, tutti e undici i musicisti ai loro posti e Jonsi che lancia dalle tastiere "I Gær" mentre tutto il castello scaligero è immerso nel silenzio. In un lento salendo musicale passano arrivano a "N� Batter�" durante la quale vengono proiettate sugli schermi le immagini riprese dalle telecamere vicino ai musicisti: ecco così che ci si concentra ora sulle dita di Georg H�lm, ora sulle bacchette di Orri P�ll D�rason, ora sull’archetto di Jonsi. La musica sale e trova un apice in "Svefn-g-englar" con il pubblico che fa il coro ai falsetti di Jonsi e con "Sægl�pur" e "Viðrar Vel Til Loft�r�sa" l’atmosfera si carica.
"Hopp�polla" provoca il cambio di passo con Jonsi che chiama il pubblico a battere le mani e ci porta in un continuo crescendo emotivo verso il finale che con "Hafs�l" degenera fino a chiudersi in tripudio di effetti e rumore. Tutti fuori per la pausa prima dei bis e mentre la folla rumoreggia estasiata senza sapere se chiudersi nel silenzio o urlare la propria gioia, rientrano per suonare "Ekki M�kk" dal nuovo album (un immagine mobile della copertina è proiettata sullo sfondo) e chiudere come meglio non potevano con "Popplagið".
Questa volta salutano davvero con tanto di inchino corale e il pubblico, che stasera ha veramente riempito ogni angolo del castello, esce triste e felice allo stesso tempo, come se in meno di due ore avesse vissuto una vita intera e questa forse per molti non è solo un’iperbole.

Tre giorni di ottima musica, ottima organizzazione perchè tutto ha filato liscio o almeno per le piccolezze o se qualcosa di più c’è stato è passato inosservato, insomma -just a perfect day/you made me forget myself/I thought I was/someone else, someone good-.


Live Report a cura di Syd The Piper
Un ringraziamento a Laura Beschi

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *