Queens of the Stone Age – Villains

Quando un gruppo che non necessita presentazioni, come lo sono i Queens Of The Stone Age, torna a varcare le scene musicali dopo una lunga assenza e un’attesa carica di aspettative è naturale che, nel bene o nel male, si alzi un polverone intorno alla nuova creatura. Era da inizio anno che le “Regine” si facevano desiderare lanciando a più riprese video ironici e irriverenti (com’è nel loro stile) per promuovere quello che è loro settimo album in studio, Villains, a coronamento di una carriera oltre che ventennale.

Che ci sarebbe stata una svolta rispetto ai lavori precedenti un po’ era prevedibile, sia dalle loro dichiarazioni che dalla notizia di un’inattesa collaborazione con il produttore Mark Ronson, nome da sempre associato ad artisti di calibro internazionale nel panorama del pop mainstream pieno di lustrini à la Lady Gaga, Duran Duran e Bruno Mars. Ma è vero anche che c’era il suo zampino dietro quel raro diamante nero che ha segnato la nostra epoca, “Back to Black” di Amy Winehouse. Già questo dettaglio la dice lunga sul fatto che Villains si profilasse come qualcosa di diverso già prima di ascoltarlo. O comunque, c’era già il sentore di una variegatura inedita per la band californiana, da sempre inscritta sotto il segno dell’heavy rock granitico oltreoceano, stoner e desertico da far venire i brividi; da sempre una delle punte più affilate del Rock (con la ‘R’ maiuscola) degli anni 00. Ma sono passati diciassette anni dall’irruzione violenta che fu Rated R rispetto al mercato discografico americano e lo squarcio nel cielo di carta che ne seguì fu pressoché irreparabile. In quel momento il mondo intero aveva visto come suonano le regine negli anni di pietra di una California persa nel deserto dei primordi e quei suoni acidi e stridenti imbastiti con compostezza e ruvidità erano già entrati a far parte degli annali. Qualche anno dopo venne Song for the Deaf (2002), da molti considerato come il loro capolavoro indiscusso, con una luce tanto accecante da adombrare tutto ciò di che di buono venne dopo (come ad esempio anche l’ultimo …Like Clockwork del 2013). C’è chi tra i sostenitori dei QOTSA ancora non riesce a riprendersi dall’abbandono del bassista storico Nick Olivieri del 2004, chi addirittura continua ad avere come costante termine di paragone gli anni giovanili della band quando erano ancora in formazione Kyuss.

Ma il tempo passa e con esso anche i gusti cambiano, sciogliendosi come gocce di inchiostro in un bicchiere d’acqua: sembrano sparire, eppure parte di esse resta sempre presente nel liquido che tinge. C’è, eppure è diverso, cambia sostanza. E forse questo è il segreto per apprezzare appieno il nuovo lavoro dei Queens: prendendo consapevolezza del fatto che è semplicemente ‘altro’, senza metterlo in relazione con quanto fatto prima o con anni zero che vadano a sancire un ‘pre’ e un ‘post’ con la facilità sommaria di chi non sa mai ascoltare fino in fondo quello che un album ha da dire. Certo, quello che è stato fatto c’è e pesa come un macigno, non lo si può dimenticare. Tuttavia, se si fa lo sforzo di prendere Villains come un’opera a se stante, staccandoci da tutto il contesto circostante, forse saremo in grado di apprezzarne ancor di più i meriti.

Già in apertura, Josh Homme & Co gettano le basi con un taglio netto e deciso su ciò che effettivamente c’è da attendersi da questo lavoro. Un cambio di rotta fatto non per diletto, ma con cognizione di causa, nel desiderio di avventurarsi verso nuovi territori, con un canto di incitamento dal sapore funkeggiante affinché i piedi non tradiscano lo spirito. “Feet Don’t Fail Me” con i suoi vorticosi stop-and-go tra synth accattivanti e chitarre che graffiano ad ogni singolo accordo introduce bene al rock-and-blues caldo ed elettrizzante della traccia successiva, nonché primo singolo estratto del disco, “The Way You Used To Do”, pezzo veloce e scanzonato in stile rockabilly con tanto di clapping a condurre il ritmo, sempre e comunque scandito da elettrizzanti riff di chitarra che si impigliano a linee di basso e rullati di batteria ben compatti e definiti. Il pezzo che segue, “Domesticated Animals”, è un recupero in chiave alt-rock di ritmi blues tinti di nuances oscure quanto lisergiche. Cambio di registro per “Fortress” introdotta da solenni archi e da un incedere lento e a tratti malinconico, che in questo si aggancia a qualche pezzo di distanza alla cupa e solenne “Un-Reborn Again” (con synth protagonisti in tutti i 6 minuti di durata e con suggestivi archi distorti e cori a cappella in chiusura) o la psichedelia crepuscolare di “Hideway”. Nel mezzo troviamo la vulcanica “Head Like A Hunted House”, intricato groviglio di scorie punk in stile rockabilly, macchiato di acidità stoner e tacciato di stilemi dal sapore dance. Distico finale assegnato a due dei capitoli più interessati di tutto il disco, benché molto diversi tra loro. “The Evil Has Landed”, secondo brano estratto, è in assoluto quanto di più simile alla loro produzione degli ultimi anni e sembra quasi voler gridare con i suoi massicci riff di chitarre “guardate che questi siamo sempre noi”. Chiusa affidata a “Villans of Circumstance”, essenziale e profonda, sembra quasi un’ispirata preghiera tra misticismo e profanazione, con un outro che ricorda vagamente i Kings of Leon in versione stoner. Davvero stupenda! Tocca corde profonde e riporta alla mente il nostro essere tutti vittime di quel male che ci fa paura, ma che infine ci appartiene, come viene suggerito anche dalla copertina, adattamento cartoonizzato di Homme mentre getta uno sguardo posseduto attraverso le mani del diavolo.

Un album complesso, che non si dilunga in fronzoli superflui e arriva mirato, con il carisma cangiante e sornione di quel cotanto di buon uomo di Josh Homme a far da padrone in ogni singolo istante. Se questo è stato il loro patto con il diavolo, sicuramente è stato un buon affare. Affrontano a testa alta i pregiudizi i QOTSA con un album che sta a metà strada tra la sfida a percorrere nuovi territori e la provocazione irriverente di chi sa quello a cui va incontro (vedi la definizione “pop” alla quale purtroppo si è giunti con troppa facilità in alcune definizione pressapochiste che ne sono state date). Sempre e comunque, long live the Queens!

 

Tracklist:

1. Feet Don’t Fail Me

2. The Way You Used to Do

3. Domesticated Animals

4. Fortress

5. Head Like A Haunted House

6. Un-Reborn Again

7. Hideaway

8. The Evil Has Landed

9. Villains of Circumstance

 

A cura di: Francesca Mastracci

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