ARCTIC MONKEYS – THE CAR

ARCTIC MONKEYS
THE CAR

A cura di: Francesca Mastracci

A un mese dalla sua uscita, ci prendiamo un po’ di tempo per guardare più da vicino un disco che ci è piaciuto molto ma che, bisogna riconoscerlo, ha una fruizione di certo non immediata. E già solo questo basterebbe per spiegare come il disco in questione abbia spaccato in due critica e pubblico. Stiamo parlando di The Car, settima e attesissima fatica in studio della band di Sheffield che ha contribuito per tutta la prima decade degli anni Zero a ridefinire i connotati di un certo tipo di indie-garage che proprio in quegli anni aveva il suo cuore pulsante in terra d’Albione.
Ma trascorso ormai un ventennio dal loro esordio, ritroviamo gli Arctic Monkeys in una veste completamente diversa rispetto a quando mietevano bordate di fan con quelle sonorità languidamente groovy e stoner. Così, dismessi ormai da tempo i panni dei ragazzetti goffi e disagiati che però appena salgono sul palco fanno la digi-evoluzione in charming rockers (categoria che, ammettiamolo, ci ha fatto sbattere la testa a tuttǝ almeno una volta nella vita), ci si presentano oggi alla soglia dei 40 come uomini stilosi e maturi con tanto di rughe, qualche capello bianco e quel fascino da musicisti vissuti triplicato all’inverosimile.

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In maniera speculare, anche la metamorfosi che hanno subito a livello sonoro segue in un certo qual senso lo stesso iter stilistico.
The Car prosegue, infatti, la linea intrapresa da Tranquility Base Hotel & Casino del 2018 (che, diciamolo senza riserve, ci è piaciuto ma non sarà mai il nostro disco preferito degli Arctic Monkeys), ma superandolo nella misura in cui crea stratificazioni sonore meno impalcate e sicuramente più fluide. Ci sono voluti quasi due anni di gestazione per concepirlo e una registrazione che ha toccato alcuni tra gli studi più rinomati che ci siano in Europa quali il monastero Butley Priory di Suffolk, i RAK Studios di Londra e La Frette di Parigi. Ma seppur ogni dettaglio sia studiato al puntino, il risultato non pare mai macchinoso come il disco che lo ha preceduto e questo è un chiaro segno di come una tale svolta nella loro carriera segua una mutazione legata al gusto dei suoi stessi autori piuttosto che a qualche compiacimento discografico vario ed eventuale. Perché, se proprio vogliamo dirla tutta anche qui, a quel punto non ci sarebbero stati troppi dubbi su quale linea avrebbero ricalcato se avessero voluto assecondare il pubblico, che ancora se li sogna in un sequel di AM del 2013 (che è diventato ormai una vera pietra miliare del rock alternativo).

E non c’è niente di sbagliato, anche nei fan di vecchia data, nel riconoscerlo e magari trovarsi a non apprezzare questa svolta. Ma, obiettivamente, bisogna ammettere che si ha di fronte il disco meglio confezionato delle scimmie artiche. Quando si ascolta il nuovo disco di una band che ci piaceva perché suonava un genere diverso, bisogna anche imparare ad apprezzarlo in relazione alla sua unicità e al modo in cui si inserisce in uno spazio continuativo che per esistere nella sua essenza più autentica deve necessariamente essere in progressione costante.


Di un’eleganza senza eguali, del tutto coerente con l’evoluzione stilistica di un gruppo che faceva il proprio esordio ormai venti anni fa, frutto di una ricercata e praticata competenza tecnica. Dall’ascolto non immediato? Certamente! Ampolloso? Forse un po’. Ma il bello di The Car, infondo è anche questo. È come il buon vino d’annata: va sorseggiato piano, traccia dopo traccia, arrivando a trascinare lentamente l’ascoltatore in un vortice pervasivo di ipnosi ritmiche, intrecci orchestrali, atmosfere nostalgiche, raffinati fraseggi strumentali e il solito crooning ammaliante di Alex Turner che ultimamente si concede sempre più spesso a falsetti posizionati inaspettatamente tra i versi. La lunga suite di piano e archi che apre il disco (nella traccia “There’d Better Be A Mirrorball”), intavola uno scenario cinematico tenuto in piedi anche da lyrics allusive che si prestano più che mai a molteplici piani di lettura, tracciando sullo sfondo trame che si riallacciano tra loro, o almeno così sembrerebbe.

Ballad suadenti elettrizzate con assoli di chitarre, strascichi sophisti-pop che si adagiano su incisi elettrici mai troppo ficcanti, ma piuttosto ovattati, posti come cuscinetti tra le progressioni jazzistiche in crescendo. The Car sembra una lunga traccia che si dinoccola tra sprazzi cromatici e riverberi di luci. Manca una vera e propria hit che ceda al richiamo radiofonico, ma i punti di forza di questo disco, come ora credo sia evidente, sono nei momenti di estrema poesia lirica e strumentale che restano piantati in mente. Le chitarre della title track, gli archi di “Body Paint” e della conclusiva “Perfect Sense”, gli arpeggi di “Mr Schwartz”, la perfetta e calibrata sezione ritmica del co-founder della band Matt Helders su “There’d Better Be A Mirrorball”, ma anche in tutte le tracce.

Proprio opera di Helders è lo scatto usato come copertina raffigurante una Toyota Corolla bianca in lontananza parcheggiata sul tetto di un palazzo a Los Angeles. Lo scatto, ispirato dall’opera del fotografo William Eggleston (di cui da sempre si è detto ammiratore) è stata il vero motore che ha avviato l’intera macchina del disco, una sorta di mise en abyme a livello concettuale, se così vogliamo definirla. Vedendo la foto, infatti, Turner ha scritto il pezzo che dà il nome al disco e da lì sono arrivati poi tutti gli altri che costituiscono la scaletta.

In definitiva, un disco arrangiato ed eseguito in maniera impeccabile, che segna il vero punto di svolta per la band in modo audace e sfrontato, come del resto sempre stati. Perché sì, è vero, ci sono cose cambiano, ma altre rimangono sempre sostanzialmente uguali a se stesse. E l’attitudine non è mai una questione di sistematizzazioni anagrafiche.

TRACKLIST:

  1. There’d Better Be A Mirrorball
  2. I Ain’t Quite Where I Think I Am
  3. Sculptures Of Anything Goes
  4. Jet Skis On The Moat
  5. Body Paint
  6. The Car
  7. Big Ideas
  8. Hello You
  9. Mr. Schwartz
  10. Perfect Sense

VOTO: 9

 

credits foto: Zackery Michael

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