Fontaines D.C. – Skinty Fia

FONTAINES D.C.

SKINTY FIA

Se è vero che recensire un disco brutto è sempre un po’ difficile, probabilmente può esserlo anche in misura maggiore il contrario: trovarsi tra le mani un prodotto qualitativamente ineccepibile, la cui caratura ha convinto in maniera alquanto unanime il giudizio di critica e pubblico, risulta essere un compito assai arduo. Soprattutto, poi, quando già è stato scritto di tutto sul disco in questione e anche, infine ma non in ultimo, quando si tratta della recensione di una delle band preferite di chi ne scrive.

Ma ci sentivamo che era arrivato il momento di dire anche noi la nostra su quello che da molti è già stato definito il disco dell’anno e, dopo averlo consumato in ogni suo formato sia digitale che analogico, eccoci a parlare di questo gioiello che è Skinty Fia degli irlandesissimi Fontaines D.C.

Quando fecero il loro esordio con Dogrel, poco più di tre anni fa, colpirono molto il mercato musicale, che già da qualche tempo stava iniziando ad avere inflessioni di gradimento verso la scena post-punk anglosassone de nuovo millennio. Erano sfrontati, impavidi, ruvidi, dannatamente cupi e avevano un’urgenza espressiva che ebbe la capacità di farci fermare tutti e dire “hey, qui sì che si sta facendo la storia”. E poi erano giovani, ma avevano un bagaglio vastissimo di citazionismo letterario e una derivatività a livello sonoro quasi anacronistica per la loro età.

Ma, si sa, non si può mai dare un giudizio così totalizzante su una band dopo solo un disco. Il rischio che ci si trovi difronte alle meteore di turno è sempre dietro l’angolo. Così abbiamo aspettato di ascoltare A Hero’s Death nel 2020 per rifinire ancora di più quelle che erano e nostre supposizioni: “qui si fa la storia”. Un cumulo denso  di sublimi giri di basso, sapientemente annodati attorno a chitarre che vibrano rincorrendosi e sovrapponendosi l’una all’altra tanto da creare un intricato mosaico dove trovano il loro posto d’onore batterie martellanti, talvolta articolate su ossessive esacerberazioni. Il tutto sublimato dalla voce baritonale, profonda e inquieta al tempo stesso, di Grian Chatten che, a detta di molti, rappresenta il vero marchio di fabbrica della band. Possibile, ma non del tutto esatto. Probabilmente inserita in un altro contesto non avrebbe trovato la propria ragion d’essere o le medesime condizioni per esprimere le proprie potenzialità. La band ha una propria identità molto radicata e funziona bene in tutto il suo complesso; questo ce lo hanno confermato ulteriormente con Skinty Fia, pubblicato lo scorso 22 aprile via Partisan Records. “La storia si è fatta” direbbe qualcuno.

Nel corso di questi tre anni, la band si è costruita un proprio seguito, raggiungendo picchi altissimi nei consensi a livello internazionale e imbastendo tre album che sono ognuno la ripresa e il superamento del precedente. Sebbene la linfa che li accumuna resti sempre la stessa che affonda saldamente le proprie radici nel post-punk più penetrante con i suoi continui innuendo alla new wave di vecchia scuola, molto è cambiato dal disco d’esordio. C’è sicuramente una maggiore attenzione alla resa finale e alla ricerca di un equilibrio che bilanci punte di detonante ruvidezza e sospensioni di dilagante intensità emotiva. Il ritmo rallenta, ma potenzialmente, proprio per questo, la sua fruizione risulta ancora più impegnativa per l’ascoltatore. La potenza delle lyrics non si smentisce neppure stavolta, e ogni traccia intavola uno scenario in cui il focus sulla condizione diasporica dell’Irlanda non cessa mai di essere presente. E basterebbe già guardare la copertina per farsi un’idea della profondità a livello identitario/politico/artistico che il disco sottende. In primo piano, infatti, intrappolato all’interno di una dimora completamente tinta di rosso, si erge un maestoso cervo gigante irlandese, animale ormai estintosi per via del palco troppo imponente da portare. ‘Skinty Fia’ in gaelico significa proprio letteralmente “la dannazione del cervo” ed è usato quasi come una sorta di imprecazione.

Quest’immagine dall’innegabile simbologia metaforica serve già di prima battuta ad introdurci al senso di inadeguatezza e spaesamento che saranno i fili conduttori della narrativa di questo disco. Per la prima volta, infatti, la band racconta dell’Irlanda, ammirandola da fuori (la maggior parte dei componenti risiede attualmente a Londra). Ed è un po’ il loro personale Ulysses joyciano; se infatti Dogrel era stata la descrizione al microscopio di Dublino e della sua gente (come lo era stato Dubliners per Joyce) e A Hero’s Death aveva scardinato il senso di Irishness mettendo in discussione anche il ruolo degli artisti nel processo di ricognizione di tale costruzione identitaria a livello nazionale (vedi A Portrait of the Artist As A Young Man), ora ci troviamo difronte al momento in cui, per dirla in termini psicanalitici, diventa necessario, anche per via circostanziale, staccare il cordone ombelicale ed esaminare la materia di studio dall’esterno. Un viaggio tra le strade di Dublino, tra reminiscenza e nostalgia, rabbia e frustrazione, ma soprattutto un canto in cui l’esigenza espressiva richiama costantemente il bisogno di rivendicazione, e in cui le idiosincrasie culturali si tramutano in fascinazione sirenica. Ulisse, per l’appunto. E non è un caso se una delle tracce del disco sia proprio “Bloomsday” in onore al protagonista del romanzo, la cui giornata viene ancora celebrata ogni anno il 16 giugno.

Ma entriamo nel vivo del disco.

La tracklist si apre in maniera, anche in questo caso, estremamente eloquente con un brano “In ár gCroíthe go deo” che si presenta come una vera e propria liturgia esequiale in cui la band ripercorre un fatto di cronaca recentissimo riguardante la negazione da parte della chiesa anglicana di far inserire la suddetta frase del titolo eponimo come epitaffio sulla lapide di una donna. Sebbene la traduzione sia “nei nostri cuori per sempre”, l’uso del gaelico era stato considerato come una provocazione e un insulto al nazionalismo britannico, che lo ha immediatamente bandito. Il peso di sentirsi costantemente in difetto e l’ansia di non essere capiti, con la conseguente impossibilità di integrarsi pienamente al tessuto sociale inglese: queste le dannazioni dei raminghi cervi d’Irlanda trapiantati in un contesto che li vuole in ogni caso snaturati.

Ma i nostri non demordono e inanellano, traccia dopo traccia, tasselli che costruiscono una loro personale estetica districata da ogni presupposto. Spesso si parla di derivatività nel descrivere il loro stile, e si fanno nomi che ondeggiano tra gli Smith, i Joy Division, i Cure, passando per gli Interpol, i Primal Scream, fino ad arrivare agli Oasis e ai Nirvana. Vero. Ma vero anche che il modo in cui si “appropriano” di tale materia= è poco più che un modo per nutrire una loro personalissima, e affatto poco originale, definizione.

Il disco procede sviscerando tutto lo scibile della new new-wave tra tirate gothgaze (eg “Bloomsday”, “Nabokov”) e post-punk (eg “Skinty Fia”, “How Cold Love Is”), ammiccamenti radiofonici anni ’90 (eg “Jackie Down the Line”,  “Roman Holiday”) e bordate alt (“Big Shot”) fino a concedersi volentieri ad incursioni folkloristiche (eg “The Couple Across The Way”).

In somma di tutto, sì. Con molta probabilità, il disco dell’anno.

TRACKLIST:

01 In ár gCroíthe go deo
02 Big Shot
03 How Cold Love Is
04 Jackie Down the Line
05 Bloomsday
06 Roman Holiday
07 The Couple Across the Way
09 Skinty Fia
09 I Love You
10 Nabokov

VOTO: 10

 A cura di: Francesca Mastracci

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