Il 2022 di Ondalternativa

Gli album del 2022 di Ondalternativa

 

Chissà se era poi così necessario stilare l’ennesima lista delle migliori uscite discografiche del 2022. Chissà  se poi di questi bilanci personali a qualcuno importi davvero qualcosa. C’è chi ama fare una propria classifica di fine anno su qualsiasi tema ed è forse anche un modo, questo, di chiudere un cerchio e scandire i dodici mesi appena trascorsi attraverso un giudizio definitivo che si guarda indietro per un’ultima volta prima di dedicarsi alle aspettative sull’anno che verrà.

Per quanto ci riguarda, non siamo molto avvezzi alle catalogazioni in forma graduatoria, ma stavolta ci siamo sentiti di metterci in gioco anche noi  e buttar giù un piccolo elenco dei dischi che abbiamo maggiormente consumato durante quest’anno che sta per volgere al termine. Così, eccoci qua, con un pelo di ritardo (ma neanche troppo) rispetto alla maggior parte dei nostri colleghi. Ritardo al quale, tuttavia, i nostri lettori sono oramai abituati perché si sa, in un contesto sociale dove a bruciarlo il tempo ci si mette davvero un attimo, abbiamo sempre preferito maturare le nostre considerazioni con calma, andando certamente per questo in controtendenza con la velocità a cui ci spinge costantemente la comunicazione mediatica.

Tornando a noi, con molta serenità possiamo affermare che il 2022 sia stato un anno ricco di uscite interessanti, con esordi preannunciati e ritorni che aspettavamo da tempo, con dischi qualitativamente impeccabili e produzioni forse poco avanguardiste, d’accordo, ma dall’impatto emozionale estremamente ricercato.

Procedendo senza una particolare coerenza cronologica o valutativa, tra questo novero inseriremmo senza alcun dubbio Ants from Up There, il secondo album in studio dell’ensemble londinese  Black Country, New Road, a cavallo tra il post-rock e il pop-progressive. Un disco che affonda le proprie radici in uno sperimentalismo jazzistico arguto, intrecciando all’andirivieni ritmico una narrazione incredibilmente potente. Resta molta amarezza nel sapere che il cantante e chitarrista Isaac Wood abbia lasciato la band poco dopo l’uscita del disco e che, pertanto, queste canzoni non siano mai state performate live. Nell’attesa di conoscere quale possa essere il futuro della band, ci godiamo questa perla dalla bellezza ineccepibile.

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Sullo stesso mood, un altro disco degno di nota è stato l’esordio della super band The Smile, progetto parallelo di Thom Yorke e Jonny Greenwood (dei Radiohead) con il prezioso contributo del batterista Tom Skinner (dei Sons of Kemet). A Light For Attracting Attention è un raffinato gioco d’incastri math rock e progressioni afro-beat, che tesse un’intricata rete elettronica, cristallizzata in flussi sonori imprevedibili. Inutile negarlo, all’ascolto sembrerebbe in toto un disco dei Radiohead ma questo, che per altri potrebbe essere motivo di critica, ci lascia indifferenti e preferiamo apprezzarlo così com’è.

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Scegliere per questa rubrica uno dei cinque dischi pubblicati su dai SAULT è stato difficile. Il collettivo funk-blues londinese ha sganciato il primo novembre ben cinque album, scaricabili online con una password segreta da indovinare. Ci sono bastati pochi minuti prima che “godislove” (questa la chiave) aprisse le porte a 56 (!) tracce inedite divise in 5 capitoli. Ci siamo sentiti di scegliere in via simbolica 11, che ne racchiude tutto il  groove  della black music anni ’80, tra jazz e rhythm & blues con gran stile. Abbiamo apprezzato la genialità della formula e della fruizione, e ovviamente anche l’organizzazione dell’impostazione sonora (sfidiamo chiunque a pubblicare 56 pezzi che non risultino ripetitivi o ridondanti).

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Altro disco certamente imprescindibile del 2022 è il terzo lavoro in studio degli irlandesissimi Fontaines D.C.: Skinty Fia che, tradotto letteralmente sarebbe una cosa come “la dannazione del cervo” in gaelico. Il disco ha rappresentato la consacrazione massima di una band che, dal suo esordio nel 2019, non ne ha sbagliata una. Nel recensirlo qualche mese fa lo dichiaravamo “il disco dell’anno” e con tutta franchezza non ci sentiamo di smentirci; vero, nulla di nuovo sul fronte occidentale in questo connubio stretto di post-punk, new-wave e afflati grunge in stile Nineties, ma come suonano bene! Ossessivo, penetrante, viscerale e del tutto autentico nelle riappropriazioni sonore e culturali di cui, pure, si fa carico.

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Restando su sonorità attinenti, il 2022 ha visto anche l’esordio sulla lunga distanza della band di Leeds Yard Act. The Overload è un vero esplosivo che racchiude al suo interno post-punk, funk, ma strizza anche l’occhio al brit-pop di vecchia scuola. Un misto fra i Parquet Courts e i Viagra Boys con il cantato spoken di James Smith che ricorda molto Jason Williamson degi  Sleaford Mods. Una proposta degna di nota, che sicuramente più guarderemo da vicino nei prossimi mesi.

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Approdando, invece, verso le lande più distese e luminose del dream-power pop, ci troviamo di fronte a Blue Rev terzo album della band canadese Alvvays. Il disco fonde arrangiamenti soffusi a melodie elettroniche anni 80, destreggiandosi tra rumorismi armonizzati in stile shoehaze e ammiccamenti malinconici. Trasuda Darklands (dei Jesus and Mary Chain) da ogni nota, ma la proposta finale è totalmente originale, seppur nostalgica, e questo ci piace molto.

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Il 2022 ha segnato anche il ritorno di Paolo Nutini che, dopo quasi 8 anni dal suo ultimo disco, confeziona ben 16 tracce più intense ed emozionali che mai. Last Night in the Bittersweet  conferma il cantautore scozzese come una delle voci più intense e graffianti di tutto il panorama soul – r&b e ne consacra la maturazione artistica esacerbandola in complesse stratificazioni di flussi elettrici e minimalismi sonori, che giocano in contrattacco per sublimare ulteriormente l’incredibile profondità dell’interpretazione vocale.

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Altro disco da cui ci aspettavamo delle conferme è stato The Car degli Arctic Monkeys , anche se è arrivato in parte come una sorpresa per tutti. Da tempo ci avevano preparati all’evoluzione sonora che stavano intraprendendo, ma tutti, diciamocelo, eravamo rimasti un po’ poco soddisfatti da Tranquility Base Hotel & Casino del 2018. Ma si sono presi una pausa da allora non a caso e sono tornati in questi mesi con quello che, a mani basse, può essere definito come il miglior lavoro dal punto di vista qualitativo delle scimmie artiche. Suite lunghissime di piano e archi che si diluiscono in ballad suadenti, elettrizzate da assoli di chitarre; strascichi sophisti-pop su incisi elettrici mai troppo ficcanti, ma piuttosto ovattati, posti come cuscinetti tra le progressioni jazzistiche in crescendo. Forse non il nostro disco preferito della band, ma indubbiamente il migliore.

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Su Kae Tempest e sulla sua poetica si potrebbe scrivere un capitolo a parte. The Line Is A Curve ci ha letteralmente lasciati senza parole, arrivandoci dritto al cuore. L’artista londinese che ha annunciato pubblicamente la sua decisione di non voler appartenere a definizioni di genere binary, ha realizzato un album che prosegue la linea dei tre precedenti. Non si tratta di un disco dalla facile fruizione; bisogna staccare tutto e concentrarsi attentamente sulle parole recitate in spoken word, tra incisi di elettronica minimale e mesmeriche modulazioni ambient, per farsi travolgere completamente dalla sua profondità. Apprezzata la scelta di ospitare altri artisti nei feat (tra cui Grian Chatten dei Fontaines D.C.) che certamente contribuiscono a dare un tocco di variegatura al lavoro, ché il rischio di risultare monocorde per questo genere è sempre in agguato dietro l’angolo.

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In ambito nazionale, ci sentiamo di isolare due dischi su tutti tra quelli che abbiamo letteralmente consumato in quest’anno. Uno è il ritorno dopo sette lunghissimi anni dei Verdena con Volevo Magia…e magia è stata! Gioco di parole davvero poco originale, ma sostanzialmente vero. Il trio bergamasco torna sulle scene con un album di pancia, ragionato quanto basta per lasciare spazio all’estro e quell’identità sonora che li caratterizza da ormai più di vent’anni. Si torna al periodo pre-Endkadenz, ma non mancano accenni sperimentali con zampilli bluesseggianti. Per lo più però ritroviamo i riff portentosi, le sferzate fuzz e le sezioni ritmiche implacabili e solide come macigni. Pestano durissimo, tra diffusioni elettriche e passaggi psichedelici. I Verdena sono un credo per noi cresciuti a pane e grunge tra la fine degli anni Novanta e la prima decade degli anni Zero, e non ci hanno mai delusi. Gli vorremo sempre un sacco bene!

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L’altro disco italiano è Quanto dei Gazebo Penguins, prosecuzione naturale di Nebbia (del 2017), a cui si riallaccia anche abbastanza esplicitamente per alcuni passaggi. Ma c’è anche Raudo dentro, c’è Legna, eppure c’è sempre qualcosa di diverso ma comunque ricorrente in modo squisitamente ostinato. Insomma, c’è tutta l’essenza della band di Correggio dentro, e quel loro modo viscerale di essere autentici artigiani del post-hardcore/emocore made in Italy che li allontana, preservandoli, da ogni compromesso. Sette tracce presentate live in pre-release meno di un mese fa che ci ha subito rapiti con i loro invalicabili muri di suono, gli urli che ci gettano addosso un’urgenza espressiva che non accenna a diminuire. Anche qui, una certezza!

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E poteva mancare, per concludere, l’ennesima playlist che nessuno ascolterà passato domani? Certo che no!

Abbiamo inserito anche altre uscite di quest’anno che comunque riteniamo degne di nota. Speriamo che questa playlist vi faccia compagnia in queste ultime ore del 2022 e vi auguriamo una buona fine.

Ci vediamo l’anno prossimo, cari lettori, pieni di propositi, novità e tanta musica!

Grazie,

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