Intervista ai Deaf Havana

10/11/18, Fabrique, Milano

A poco più di un anno di distanza dall’album che aveva segnato il loro ritorno sulle scene musicali (All These Countless Nights, ndr), i Deaf Havana hanno deciso di pubblicare lo scorso agosto un disco che ha rappresentato una svolta drastica nel loro percorso discografico. Dal post-hardcore delle origini, passando per sonorità più alternative-rock degli ultimi anni, con questo lavoro sono arrivati a toccare corde poppeggianti dal sapore smaccatamente radiofonico che non avrebbero mai pensato di toccare. Il disco si intitola emblematicamente Rituals e, sebbene non sia pensato esplicitamente per essere un concept album, è tutto incentrato sui piccoli grandi rituali che costituiscono la vita e che in qualche modo spingono a cambiare identità per ricominciare da capo quando ormai si credeva di aver perso tutto. In vista della data italiana del tour dei Nothing But Thieves al Fabrique di Milano, loro sono stati chiamati per aprire il concerto e noi di Ondalternativa siamo andati ad intervistarli. Ecco la chiacchierata che abbiamo fatto con i fratelli Veck-Gilodi (James e Matt), due ragazzi super disponibili e simpatici che sembrano quasi macchiette comiche quando scherzano tra di loro ed è un piacere anche semplicemente starli ad ascoltare, ma che tirano fuori un lato molto introspettivo e maturo nel parlare del loro lavoro.

 

Ciao ragazzi e grazie ancora per questa opportunità.

Grazie a te, per noi è davvero un piacere!

 

Bene, allora iniziamo con una domanda che senza dubbio vi sarà stata fatta centinaia di volte già dall’uscita del disco. Rituals segna l’inizio di un nuovo percorso, il coronamento di una metamorfosi che vi ha cambiati dal punto di vista sonoro e personale. Ed è anche coraggioso fare dei cambiamenti cosi drastici quando si evolve a tal punto da rendersi conto di non voler restare prigionieri in un’identità che non si sente più rappresentarci. Ma non è questo che vi chiedo; vi chiedo invece: cosa vi ha portati fino a questo a punto?

J: Esattamente quello che stavi dicendo; ho iniziato a sentire l’esigenza di voler fare qualcosa di diverso, non dico fosse una scelta rischiosa, ma certo poteva facilmente andare male. Avremmo potuto benissimo far uscire un altro disco rock come l’ultimo e forse ai nostri fan sarebbe anche piaciuto di più, ma ci eravamo stancanti e volevamo cambiare un po’ il nostro percorso rendendolo un più eccitante e diverso. Facciamo questo da molto tempo e non so, forse eravamo semplicemente arrivati al punto di volere un cambiamento che fosse abbastanza drastico. E così è stato.

 

Ed è andata anche bene, sarebbe stato certo più semplice fare un album sulla scia di All These Countless Nights.

M: Inizialmente, stavamo andando verso quella direzione e James aveva iniziato a scrivere delle canzoni che avevano più o meno le stesse sonorità. Poi ne ha scritte un paio che erano molto diverse, più poppeggianti, e noi in un primo momento abbiamo risposto con: “Ma dobbiamo davvero farlo?”. Non eravamo troppo entusiasti all’inizio, ma poi con il tempo ci convincevano sempre di più e siamo arrivati a registrarle.

 

Cosa è stato a farvi cambiare idea?

M: All’inizio non riuscivo a capirle, e poi è stato James a convincerci.

J: Penso che all’inizio sia stato un po’ uno shock per loro perché quando gli ho mandato la prima canzone era veramente moooolto molto pop rispetto alle nostre corde e questo li ha destabilizzati; non se lo aspettavano.

M: Credo sia stato anche perché avevamo poco materiale e non riuscivamo bene a contestualizzare quello che avevamo.

J: Sì, e poi non li avevo neanche avvisati su cosa li avrebbe aspettati. Mi sono semplicemente presentato così: “Questo e quello che ho scritto, che vi piaccia o no”. Poi credo sia stato il tempo che li ha aiutati a metabolizzare i pezzi.

M: Sì, anche il fatto che ci siamo coinvolti sempre più con il lavoro che stavi facendo.

 

L’album è comunque il risulto di soli 6 mesi di lavoro e si potrebbe dire che nasce da una sorta di esigenza comunicativa, un’urgenza espressiva che ti ha spinto a voler dire qualcosa che avevi dentro in un modo diverso rispetto al passato. Cos’era quello che volevi comunicare di più con questo album?

J: Penso che “urgenza” sia un’ottima espressione per definire l’emozione che volevo esprimere. Credo anche che ci sia molto di me che aveva bisogno di emergere, sentimenti che avevo trattenuto dentro di me, sentimenti che neanche credevo di avere, tanti sensi di colpa sulle mie spalle. E, non so, volevo che fosse proprio questo il sound per esprimere questo tipo di sentimenti, questi testi così disperati.

 

Come una sorta di giustapposizione tra musica e testi.

J: Una giustapposizione sì, esattamente! E credo che se volevo davvero cambiare, dovevo fare in modo di suscitare delle reazioni forti. Volevo che chi lo ascoltasse, dicesse: “woah, e ora cos’e questo?”, sia in positivo che in negativo. Credo sia stato questo ciò che mi ha spinto di più.

 

Devo ammetterlo, inizialmente sono rimasta molto sorpresa io stessa seguendovi ormai da anni. Non dico che non mi piacesse, ma ero sorpresa.

Nel brano “Heaven” c’è un passaggio che dice: “But now I’m tiptoeing the line between what I know is wrong and moving on from all these countless nights” (citando il vostro lavoro precedente). Quindi dov’ è il posto in cui vi state dirigendo ora?

J: Non so, mi piace pensare che ci sia un posto migliore dove andare, dove non sono la persona che ero, dove non tratto le persone come ero solito fare. La vita poi ti porta ad elaborare dei…

M: emmm… Rituali?

J: Ahahah! Esatto, dei Rituali, in tutti i sensi. Ma in quel verso che hai citato volevo esprimere il mio costante senso di ricerca di una strada giusta da percorrere. Perché nella mia mente sapevo bene cosa avrei dovuto fare anche in passato, ma c’era sempre qualcosa che me lo impediva, io stesso me lo impedivo. Non so cosa ne sarà del futuro, non ci penso mai troppo, vivo il momento presente  e agisco, In quel verso volevo far capire anche questo, come mi sentivo in quel momento, perché riconosco tutti gli errori che ho fatto nella mia vita e quindi sentivo il bisogno di essere diverso da ciò che ero. Non so dove tutto questo mi porterà.

 

Il titolo ha una sorta di significato antropologico: un momento liminale, una soglia in cui un individuo decide d non voler esser più la persona che era ma non è ancora diventato altro. Il plurale indica che ci sono stati più rituali di questo genere nella vostra vita. Quali sono i rituali più significativi sia nella vostra carriera che nella vostra vita personale?

J: Ci sono rituali positivi e negativi. I positivi credo siano stati i momenti che ci hanno tenuti uniti come fratelli e come band, supportandoci l’un l’altro, perché è difficile quando si è lontani di casa per molto tempo. I rituali negativi che ci hanno fatto crescere, invece, sono stati ad esempio il bere, perché bere livella tutto e fa uscire fuori parti inaspettate di sé. Non so tu che pensi, Matty?

M: Per me, credo che tra i rituali più significativi ci siano stati quelli che mi hanno portato a chiedermi cosa significa la musica. Una delle cose più importanti per me ora, che ho imparato a fare nel corso degli anni, è che ogni volta che mi sento in un certo stato d’animo, devo mettermi le cuffiette e sparire, a volte anche per 5 ore di fila, ascoltando album che significano molto per me. E questo per me e un po’ come un rituale che mi aiuta ad affrontare i momenti difficili.

 

So che questa volta hai elaborato prima i titoli e poi tutto il resto dell’album. Tutti i titoli hanno significati legati alla religione. Qual è il vostro rapporto con la fede e la religione?

J: Mi piaceva l’immagine di vedere la tracklist costituita di nomi che fossero parole singole e tutte legate da significati religiosi. Mi incuriosiva sapere cosa pensano le persone quando leggono visivamente questo. Il mio rapporto con la religione? Beh, non posso dire di essere religioso ma neanche di non esserlo; non sono ateo, credo che ci sia un potere maggiore ma non so cosa sia. Sento che c’è qualcosa, un’energia che muove tutto e governa le persone; ci sono incastri e coincidenze che secondo me dipendono da qualcosa di più grande di noi, ma non so se poter definire questo fede o no.

M: No, credo che definirla così limiti la mente nel comprendere che siamo piccole particelle minuscole all’interno dell’universo. Credo che la fede aiuti semplicemente a dare una risposta a tutto questo, a renderlo comprensibile.

 

C’è infatti anche una componente mistica nell’album con molti simboli esoterici presenti nell’artwork. Da dove vengono?

J: Sì, quelli li ho presi in libri di rituali satanici; li ho trovati e ho visto cosa significassero, poi ho attribuito ognuno di essi ad una canzone che aveva un significato simile e rilevante nel contesto generale che i pezzi volevano esprimere. Di nuovo, non sono un satanico ma credo fosse interessante anche attribuire un aspetto oscuro e strano in contrasto con il sound.

 

Sono molto curiosa della scaletta di questa stasera. Ad essere sincera non l’ho voluta cercare apposta online per far sì che sia una sorpresa. Ditemi solo, come l’avete organizzata?

J: In realtà, non è stato così semplice come pensavo. Credevo fosse più facile alternare un pezzo pop a uno rock. Ma forse anche perché nel corso degli anni abbiamo cambiato un po’ il nostro modo di suonare sul palco.

M: La scelta della scaletta si basa tutta sul cercare di fare i pezzi che maggiormente coinvolgono live. Non è detto che i pezzi migliori nell’album siano anche i migliori dal vivo, o viceversa. Sia perché non sono così divertenti da suonare o perché è troppo difficile render un pezzo simile a come suona sul disco  o perché è troppo piatto. Quindi sostanzialmente abbiamo lavorato su diversi aspetti che ci hanno portato ad elaborare la scaletta in questo tour.

J: Poi, stasera avremo soltanto trenta/quaranta minuti a disposizione perché, oltre noi, c’è anche un’altra band ad aprire il concerto dei Nothing But Thieves. Faremo sicuramente 4 pezzi del nuovo album, ma è difficile mettere insieme una scaletta esaustiva quando hai cosi poco tempo a disposizione.

M: Quando sei una support band vuoi anche che il pubblico entri nel mood ideale per la band che si sta per esibire dopo di te. Vuoi essere convincente il più possibile e per fare questo cerchi di fare di tutto per essere anche piacevole. Il modo in cui strutturi la scaletta dipende anche dalle altre band con cui dividi il palco.

 

Quale tra i vostri album è quello al quale siete più legati emotivamente?

M e J (all’unisono): Old Souls, al cento per cento.

J: Non credo veramente che piaccia a qualcuno oltre noi, lo abbiamo registrato e non piaceva a nessuno e ci siamo resi conto che quella roba non ci stava portando da nessuna parte.

M: Ci sono anche altri pezzi ai quali sono emotivamente legato, ma Old Souls nel suo complesso significa molto per me.

J: Anche per il modo in cui è venuto fuori, come lo abbiamo registrato, dove eravamo; tutto questo gli conferisce un appeal importante per noi.

M: Sì, anche se è uno di quegli album a cui nessuno presta mai troppa attenzione. Ma a volte qualcuno viene e fa dei complimenti su quell’album e, beh, per me è importantissimo. Lo abbiamo fatto con molta spensieratezza, eravamo molto giovani e non sapevamo nemmeno troppo bene quello che stavamo facendo, però è da lì che siamo partiti.

J: Anche Rituals per certi aspetti significa molto per me; perché i testi molto personali e toccano soggetti che non avrei mai pensato di esplorare e questo significa molto.

 

Qual è invece la canzone che vi piace di più suonare sul paco?

J: Del nuovo album credo sia “Hell”. Però anche “Fever”, perché mi sembra talmente tanto immediata da suonare che le mani si muovono quasi da sole; non ci devo pensare molto e  devo solo pensare a divertirmi quando la suono. Ma poi dipende anche dal momento; non suoniamo quasi mai in modo completamente identico i brani da un live all’altro, c’è sempre qualcosina di diverso che spunta fuori.

 

Una delle cose che mi e piaciuta di più di questo album e che sembra davvero un ciclo, e finisce nello stesso modo in cui inizia. Sentendo l’album in repeat, “Epiphany” sembra confluire in “Wake”.

J: Sììì, è proprio quello che volevamo realizzare e sei la prima persona che se ne è accorta. Sono molto lusingato di questo, è meraviglioso.

(Momento di emozione da parte mia e da parte loro).

Era esattamente proprio quello che volevamo fare, ma era difficile far incastrare le note insieme, cercare un modo per connetterle senza far sembrare una forzatura. Lo abbiamo fatto per quel che abbiamo potuto e volevamo proprio che emergesse questo.

 

Sono contenta che vi abbia fatto piacere. Grazie ancora e a presto!

Grazie a te! A febbraio torneremo come headliner (22 febbraio, HT Factory di Seregno, ndr), speriamo di vederci in quell’occasione!

 

A cura di: Francesca Mastracci

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