Protest the Hero – Palimpsest

Senza dubbio una delle uscite più attese di quest’anno, soprattutto tra i neofiti di quel certo filone del mathcore che si fonde inestricabilmente con il progressive metal. A distanza di ben 4 anni, la band canadese Protest the Hero torna ad infiammare le scene metal con un disco che già dal titolo lascia presagire la stratificata complessità che lo contraddistingue. Palimpsest, uscito lo scorso giugno per Spinefarm Records, è infatti un conglomerato di influenze e generi destrutturati e ricomposti in maniera magistrale da una band che vanta una cura certosina a livello di produzione sin dai suoi esordi agli inizi degli anni 00, e che difficilmente riesce ad essere catalogata all’interno di categorie ben delimitate.

Le aspettative erano alte, sia perché il loro ultimo lavoro del 2016, Pacific Myth, era risultato un conclamato flop e sia perché circa due anni fa la band era stata costretta ad annullare il tour per il decennale di Fortressa causa di gravi problemi alle corde vocali del cantante Rody Walker, che necessitavano una cura repentina. Un po’ l’incertezza su cosa ne sarebbe stato della band, un po’ la necessità di trovare nuovi stimoli, hanno reso non proprio semplice la realizzazione di questo disco (che pure, a detta della band, era in lavorazione già tre anni fa). Ma l’entrata del poliritmista Mike Ieradi in veste di batterista lo scorso anno aveva portato una ventata di aria fresca. E così, con queste premesse, ha visto la luce Palimpsest in un periodo storico anche un po’ scomodo, ma finalmente con la grinta giusta per consacrarsi un posto d’onore nella discografia della band.

Con questo sesto full length si può affermare con tranquillità che i PTH abbiano raggiunto l’apice della loro carriera a livello compositivo. Probabilmente è vero quanto è stato affermato da molti, ovvero che il disco non ottiene i risultati degli inarrivabili Fortress (2008) e, ancor di più, Volition (2013). Tuttavia, è vero anche che si registra una maturità ed un senso del ritmo molto più stratificato rispetto al passato.

Nelle 13 tracce che compongono il disco (10 + 3 intermezzi) ritroviamo tutta la compattezza delle poliritmie con un impianto che si compiace delle sue sincopi super serrate e che si incastra alla perfzione ai riffoni incandescenti che sconfinano talvolta in una matrice metalcore e talvolta in una sorta di punk anni 00 rivisitato ad hoc(“Canary”, “From the Sky”). Oltre questi, che sono i tratti comuni ai quali ci avevano già abituati nel corso della loro ventennale carriera, troviamo stavolta un intensificarsi inedito della componente melodica, con innesti sinfonici di tastiere ed archi che giungono a coronamento delle atmosfere epiche e solenni (“Reverie” “Soliloquy”). Particolarmente degna di nota è “All Hands”, anche grazie alla sua posizione nella tracklist, immediatamente preceduta dall’interludio incredibilmente evocativo che è “Harborside”, dove troviamo un equilibrio interessante tra il sound tagliente delle strofe poliritmiche e del progressivo lavoro chitarristico con la presenza di variazioni in chiave melodica, a tratti catchy.

Insomma un disco eseguito in maniera impeccabile dal punto di vista tecnico e del songwritng, che affronta tematiche forti quali il pregiudizio, il razzismo e l’alienazione, lasciandosi condurre dal concept dell’idea di grandezza, intesa sia nei suoi aspetti positivi che in quelli negativi.

Infine, un lavoro amabile con uno slancio diverso rispetto ai lavori passati (l’evoluzione in questo senso è sempre un merito). Senza timore, ci sentiamo di definirlo l’album della loro maturità artistica.

 

 

Tracklist:

1 – The Migrant Mother

2 – The Canary

3 – From The Sky

4 – Harborside

5 – All Hands

6 – The Fireside

7 – Soliloquy

8 – Reverie

9 – Little Snakes

10 – Mountainside

11 – Gardenias

12 – Hillside

13 – Rivet

 

A cura di: Francesca Mastracci

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