Brutus – Monk (Roma), 22.10.23

Live report a cura di Francesca Mastracci

L’impatto che può avere un live su chi ne prende parte non è mai un fattore preventivabile. Certo, a volte si hanno delle aspettative più o meno alte, comprovate dal grado di coinvolgimento che si nutre nei confronti degli artisti che si esibiranno palco o dallo storico dei concerti degli stessi a cui si è partecipato in passato.

Ma anche lì, è tutta una faccenda di suggestioni legate al momento specifico.

Non avevo mai visto i Brutus live, benché si tratti di una band che seguo ormai da anni (più o meno da quando ascoltai il loro primo disco Burst nel 2017). Chi tra i miei contatti aveva già avuto modo di vederli (principalmente all’estero), mi aveva avvisata che avrei assistito ad uno spettacolo di una potenza inaudita. Quello a cui ho assistito, però, ha travalicato di molto le mie già alte aspettative.

Giunta per la pima volta da headliner in Italia, la band belga aveva programmato un tour di tre tappe, toccando Verona il 21 ottobre (data saltata per problemi personali legati ai gestori della venue), Roma il 22 e Milano il giorno seguente, tutte accompagnate dall’opening act di supporto dell’artista di origini russe ma italiana di adozione Kariti.

Il loro set inizia puntualissimo: 21,30 spaccate. Stefanie Mannaerts (batterista e cantante), Stijn Vanhoegaerden (chtarrista) e Peter Muldersè (bassista) salgono sul palco del Monk timidamente, quasi dismessi, accompagnati da suoni di effettistica e da luci soffuse blu che nascondono i loro volti.

È un istante, però, che dura giusto il tempo di posizionarsi dietro i loro strumenti e dar vita ad una sorta di rito brutale di dissonanza e grazia che ti entra dentro e ti sconquassa ad ogni nota.

Iniziano in picchiata con “Liar”, uno dei miei pezzi preferiti tratto dell’ultimo disco Unison Life (uscito a fine 2022), e stabiliscono immediatamente quali siano le loro coordinate performative: urgenza, irrequietudine ed emotività.

Il resto della scaletta inanella senza troppi fronzoli tracce sparse dai loro tre lavori, creando un continuum in cui i suoni blackgaze vengono costantemente accarezzati dal doom e stravolti un istante dopo dalle sezioni ritmiche post-hardcore che irrompono poderose avvolgendo la voce suadente, e al tempo stesso struggente, di Stefanie.

È lei che, innegabilmente, catalizza l’attenzione, dietro la sua batteria posta di lato al palco e con il busto girato verso il pubblico durante tutte(!) le parti cantate. Ma è la sinergia di tutti e tre ad avermi ammaliata. Si scambiano costantemente gli sguardi per entrare in contatto prima di un’ennesima sfuriata rumoristica o nei momenti in cui i toni si abbassano e cercano di ristabilire il loro fiato comune.

La nenia claustrofobica di “Justice de Julia II”, l’impeto ipnotico di “War” e le pulsioni vorticanti di “Space”. L’asprezza incandescente di “Horde II”, la forza poetica e graffiante di “Dust”, e le pulsioni quasi scanzonate di “Victoria”, che chiude il live. Personalmente, ho amato in modo particolare anche la delicatezza struggente di “What Have We Done” e il pugno allo stomaco che è stata “Space Dragon”, otto minuti di catarsi che ho vissuto internamente facendomi travolgere dalla sua intensità.

Questi sono solo alcuni dei momenti che hanno caratterizzato il set. Che si chiude a un’ora e dieci dall’apertura, senza bis o encore. Unico momento di stacco, il nostro coro di “Happy Birthday” per augurare buon compleanno a Stefanie, la quale ringrazia sinceramente ma con discrezione e prosegue la sua tirata sulle pelli.

Una cosa che ammiro molto del loro modo di performare è il trasporto con cui mettono in scena ogni pezzo come se fosse l’ultima volta. Non capita spesso di riscontrare quest’attitudine ai live. Ma quando capita, è tutto.

 

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