Intervista Converge

CONVERGE, ORION (CIAMPINO), 18-06-2018

Capita talvolta di sentire per la prima volta dal vivo una band che ti fa capire immediatamente appena sale sul palco non solo perché ti è sempre piaciuta, ma anche perché ti piace la musica in generale, a prescindere dal genere e dalle emozioni che alcuni pezzi rievocano. Lì senti veramente il mestiere del musicista esercitato da veri professionisti, senti la struttura sonora, senti la capacità di articolare la sostanza della performance, magari anche ridotta all’osso, ma presente come una forma invisibile che invade il palco e infrange la quarta parete per rigettarsi sul pubblico in modo violento ed imprevisto. Ti senti investito di un significato che avevi colto solo a livello potenziale ascoltando gli album, da solo nella tua camera mentre odiavi te stesso e il mondo o mentre il semplice respirare ti manteneva in vita. Poi le senti live queste band che ti sono state vicine in alcuni dei momenti più assurdi della tua vita e tutto acquista un senso. Un cerchio si chiude e capisci quello che forse hai sempre saputo.
Ma tralasciando i significati trascendentali e personalissimi che mi hanno accompagnata durante il live dei Converge, va detto che è raro trovare band di quel calibro che presentino una taratura alla perfezione performativa, oscura e netta, che urla nella sua esigenza comunicativa, così viscerale ed emotivamente devastante. E non è un caso se la band americana sia ad oggi una delle band più longeve nell’ambiente metalcore, hardcore o, come lo definiscono loro, “aggressive”. Ormai all’attivo dal 1990, non hanno mai mostrato un minimo cenno di disfatta, ma anzi hanno mantenuto un incedere progressivo che li ha portati a pubblicare alla fine dello scorso anno il loro nono album in studio, The Dusk in Us. Un album che ancora una volta sottolinea il loro stacco rispetto a molte delle band presenti nel panorama, realizzato con il piglio stilistico che li contraddistingue e risultato di un’evoluzione stilistica che ha raggiunto una certa maturità compositiva, sia per i testi che per l’aspetto sonoro. Pieno di modulazioni inedite rispetto ai lavori precedenti e con un carattere ancora più emotivo rispetto al passato (come la struggente traccia che dà il nome all’album, da brividi veri).
In occasione della data romana del tour europeo, noi di Ondalternativa abbiamo avuto modo di intervistare Jacob Bannon, leader della band e artista poliedrico che ne cura l’artwork sin dagli esordi. Più che un’intervista si è trattato in realtà di una vera e propria chiacchierata con una persona molto disponibile e inaspettatamente loquace. Quello che sul palco sembra avere le sembianze di uno spiritello indemoniato, a parlarci si è rivelato un uomo molto gentile e umile. Bottiglietta d’acqua in mano, voce calma e quasi difficile da ascoltare, non sembra nemmeno lui. La quiete prima della tempesta, da cui farsi trasportare prima dello scoppio finale.

Innanzitutto ti ringrazio infinitamente Jacob per vermi dato la possibilità di questa intervista. Capisco che siete in una fase intensiva del tour e a volte si vorrebbe soltanto stare per fatti propri e stare tranquilli, lasciare il mondo fuori….
Mah guarda, per me è un piacere condividere la mia musica e tutto il tempo che ho a disposizione con le altre persone.

Beh sì, ma comunque grazie! Allora, iniziamo. The Dusk in Us è il vostro ultimo album e in un certo modo rappresenta anche l’album della svolta, della maturità compositiva. Si registra notevolmente un’evoluzione sia per quanto riguarda il sound che la voce. Anche dal punto di vista tematico, credo che sia un album che riguardi la crescita personale: riconoscere l’oscurità che ognuno di noi ha in se stesso e cercare di scendere a patti con essa. Io l’ho associato nella mia mente con la frase che pronuncia Prospero riguardo Calibano (ne La Tempesta di Shakespeare): “This thing of darkness I aknowledge mine”.
Grazie! Sono d’accordo in parte, ma credo che tutti i nostri album siano stati lavori totalmente personali. Tutto quello che abbiamo scritto nella maggior parte dei casi è una riflessione personale su fatti che ci sono accaduti e quando scrivi canzoni da questa prospettiva il risultato è sempre qualcosa di onesto ed emotivamente coinvolgente per te stesso e per il pubblico. Poi c’è sempre una parte della tua vita in quello che fai che è riflesso del periodo in cui lo stai facendo. Quando scrivevo canzoni a 15 anni, scrivevo del me stesso a 15 anni, quando ne avevo 20 scrivevo di me a 20 anni e così via fino ad arrivare a The Dusk in Us. Quindi sì, credo ci siano senza dubbio momenti di maturità e progressione in quest’ultimo album, sicuramente, ma ogni album in qualche modo li ha e se non li avesse credo sarebbe un vero problema. Per noi è un marchio del tipo di band che siamo, di quello che facciamo, e del fatto che per noi tutto questo dovrebbe sempre essere fatto nel modo più corretto e onesto possibile. Non vogliamo ostentare nulla o sembrare personaggi che sono innaturali, non abbiamo mai voluto recitare il ruolo di super cattivi con maschere, o fare i super tristi; scriviamo canzoni molto umane, e, sai, c’è dentro tutto: rabbia, emozione, tristezza, oscurità ma anche sprazzi di speranza.

Proprio riguardo questa emozionalità di cui parli, io credo che sia la dote aggiunta che contraddistingue i vostri lavori rispetto alla maggior parte della produzione metalcore nella scena contemporanea.
Sì, sicuramente! Non credo che la nostra band abbia molto in comune con molte delle band che fanno parte del panorama metalcore o hardcore contemporaneo. Possiamo anche avere lo stesso volume, ma siamo diversi; veniamo da posti diversi, le band che ci hanno influenzati non sono le band che hanno influenzato i musicisti di oggi. Noi siamo più anziani, o forse, mettiamola diversamente, facciamo questo lavoro da più tempo. Abbiamo iniziato quando eravamo davvero molto giovani.

Avevi 14 anni tu, vero?
Sì, io ero teenager, ho iniziato a suonare con quello che era il nostro primo batterista che avevo tipo 13-14 anni. Gli altri componenti, il bassista e il chitarrista, anche avevano 15-16 anni. Kurt (Ballou, chitarrista della band, ndr) l’ho conosciuto a 15 anni.

Una vita insieme in pratica.
Sì, facciamo questo da un sacco di tempo e la musica all’epoca in cui abbiamo iniziato era negli anni d’oro del metal e hardcore e del crossover. Era un ambiente davvero eccitante quello e noi siamo lo specchio di quel periodo; non nella totalità, ma comunque rispecchiamo l’eccitazione e il fermento di quell’epoca, tutta quell’unicità e freschezza che emergeva ovunque ed era una grande fonte di ispirazione per noi. Quindi le nuove band di ora che vivono un periodo musicale totalmente diverso dal nostro hanno un diverso modo di rapportarsi con la musica. Poi, c’è da aggiungere ad esempio che internet di allora non è quello di adesso. Pensa a come internet cambi letteralmente le interazioni di tutti noi con ogni aspetto della vita; all’epoca era impensabile tutto questo.

Decisamente! Parlando di ispirazione, quali sono le vostre maggiori fonti di ispirazione oggi?
Semplicemente scrivo della mia vita. Quando non mi sento al pieno delle forze o non sono troppo entusiasta della vita in generale, cerco di scrivere e fare arte attraverso strumenti che in qualche modo mi aiutino ad utilizzare il processo creativo. Questa è l’ispirazione: la vita. Ognuno di noi credo abbia aspetti della propria vita che sono complicati e si ha bisogno di sviluppare qualche capacità per poterli affrontare. Io sono molto fortunato ad avere arte e musica per poterlo fare.

Quando lavori ai tuoi artwork, come si sviluppa il processo creativo? Cosa ispira cosa? Arriva prima il disegno o la musica?
Dipende da ciò a qui sto lavorando: se sto lavorando a qualcosa relativo prettamente a un progetto visivo viene prima l’artwork, è una questione di esercizio nell’immagine. Se invece sto scrivendo una canzone è un po’ più complicato perché entrano in gioco altri fattori e motivazioni. Quando invece stai lavorando per qualcosa con la band è ancora più complicato: c’è da tener conto di ciò che significa il testo e quindi devi cercare di dare all’artwork un aspetto visivo che trasmetta il senso del contenuto testuale, così come dello spirito della musica stessa. Ci sono molte varianti e difficoltà coinvolte in quest’aspetto; sono tutte connesse ma sono tutte diverse in qualche modo. Io non guardo mai ad artisti esterni a questo punto della mia vita; ho quasi 42 anni e faccio quel che faccio. Sì, ovviamente ci sono molti artisti incredibilmente bravi in giro, ma è raro che io trovi qualcosa che mi ispiri in modo rilevante, o comunque non mi metto a cercare di studiare la loro arte e trarne fonte d’ispirazione. A questo puto della mia vita non ne ho tempo e ho ancora abbastanza ispirazione per conto mio. Quindi, ci sono già io ad ispirarmi.

Capisco, hai te stesso come punto di arrivo e di partenza.
Sì, è un po’ come una come essere in una bolla in un certo senso. Ma non escludo che possa esserci un punto nella mia vita in cui potrei guardare al di fuori e lasciarmi ispirare da altro. Ma non è qualcosa che sento come impellente. Per ora quel che conta è quel che faccio, quello che mi trasporta ed emoziona, e questo è ciò di cui scrivo.

I vostri testi sono sempre molto introspettivi e profondi. Questo li rende recettivi a molteplici strati interpretativi secondo diverse prospettive che ognuno ha. Il che in parte è vero per qualsiasi opera d’arte, ma nel vostro caso questa pluralità si intensifica ancora di più. Si raggiungono gradi di introspezione nei vostri testi che toccano corde talmente tanto radicate nell’individuo da essere universali proprio per questo. Lo senti come un peso o come una liberazione per te?
Cerco di non prestarci troppa attenzione; quando faccio la mia arte o scrivo musica, registro qualsiasi cosa di ciò che sento sulla carta; è qualcosa che esce fuori da me e quello è tutto. Una volta che lo distribuisco, perdo il mio possesso esclusivo. Quando un album viene pubblicato, i miei diritti su di esso diventano soggetti all’interpretazione del pubblico. Sta a loro intrepretare come vogliono in base alle loro esperienze, alla loro sensibilità, alla loro vita. Ogni singola persona che interagisce con la musica la investe di significato diverso ecco perché cerco sempre di non spiegare in modo troppo dettagliato le mie cose, o dettare piuttosto come le persone debbano recepire le cose che scrivo. Piuttosto, scrivo in modi che sono molto specifici per me ma possono essere inseriti benissimo nelle vite delle altre persone. Tutto dipende dall’interpretazione, ma non mi interessa sapere come gli altri interagiscano con ciò che faccio. Non posso controllarlo io questo meccanismo; se lo facessi probabilmente impazzirei nello sforzo di far emergere esattamente quello che voglio che gli altri comprendano. Non si può e basta.

Sì, credo diventi un’ossessione a un certo punto.
Ma sì, perché in fin dei conti cosa ci puoi fare?! Ci sono molte interpretazioni sbagliate o incomprensioni totali, ma alla fine se accetti che è così, va bene. Ognuno ha una prospettiva personale e una propria opinione che è valida per quello che è. Quindi cerco sempre di focalizzarmi sul processo creativo piuttosto ed è quello che conta per me, tutto il resto è secondario.

Qual è il brano/album che senti maggiormente rappresentativo di questa vostra identità?
Per quanto riguarda i Converge, credo sia sempre il più recente, sia per il testo che per lo stile che raggiungiamo. Essendo una band che scrive canzoni basate sulla propria vita personale, il più recente è sempre lo specchio più vicino alla vita. Più lontano vai e più distanza c’è con i tuoi lavori. Il che non significa che essi siano più o meno validi per questo, sono semplicemente diversi momenti nella vita, rappresentano modi diversi di vedere le cose, sono capitoli del libro che stai scrivendo.

A proposito, hai mai pensato di scrivere un libro?
Mah, scrivere non troppo. È uscito lo scorso anno un libro di foto e ho lavorato anche ad altri libri illustrati. Su questa linea però sì, ho altre idee in mente.

Ho molto apprezzato la vostra esibizione con Chelsea Wolfe durante il tour di Blood Moon. State pensando di riproporre qualcosa del genere, o magari lavorare insieme per degli inediti con lei o con altri artisti?
Sì, è stato un piacere lavorare con Chelsea e con Ben (Chisholme, ndr) della sua band e Stephen (Brodsky, ndr) dei Cave In/Mutoid Man per quel tour. Abbiamo ancora un sacco di idee. Quella non è stata la fine del progetto ma solo un inizio, la vediamo come una “big band” di amici che lavorano in modo creativo e suonano insieme reinterpretando vecchie canzoni e collaborando per produrne delle altre. Abbiamo tutti un sacco di idee su molte cose e quindi sì, decisamente c’è molto fermento in questo senso che si muove su quella direzione. Non appena i nostri impegni rallenteranno un po’, ci metteremo a lavoro sul serio per realizzare qualcosa di concreto.

Ne sono entusiasta! Non vedo l’ora di ascoltare qualcosa.
Sì, abbiamo fatto il demo di 19 canzoni all’incirca. Ci aspettiamo noi stessi grandi cose. Non so cosa ne verrà fuori, se estrarremo qualcuno di quei singoli, ma sono li. È una grande cartella e ci mettiamo dentro quanto più possiamo per il momento.

Fantastico! I vostri lavori spesso riguardano la convergenza di cose discordanti (luce/oscurità, pace/tumulto, odio/amore). Come pensi che questo dualismo trovi risoluzione?
Sai, non saprei dare una spiegazione a questo. Normalmente ci chiedono di dare una spiegazione su ciò che siamo e cosa facciamo. È molto difficile spiegare la nostra essenza; per la maggior parte delle persone ad esempio quello che facciamo è “caciara” semplicemente, metal o hardcore, e ci definiscono con nomi che non ci rappresentano. Quando ci chiedono che tipo di musica facciamo, mi piace sempre rispondere che siamo un’“aggressive band”. Tutte le persone che vengono ai nostri live, che ci seguono da tempo (ormai contiamo centinaia di concerti) sono certamente persone appassionate del genere, al metal, heavymetal, hardcore, ma hanno tutti probabilmente un loro modo di definire la nostra band rispetto agli standard. Ma va bene così perché le definizioni non contano mai troppo. Sai, credo che la maggior parte degli artisti siano più grandi delle definizioni che gli vengono attribuite e le etichette sono di solito un modo veloce e sommario per dare una definizione. Ma come si fa a dare una definizione alla musica? Non è qualcosa che può essere facilmente masticato e digerito così.

Una delle cose che ho sempre apprezzato di voi, oltre il lato artistico, è la vostra umiltà. Non è comune trovare artisti del vostro calibro che si cedono così come fate voi.
Dovrebbe esserlo.

Ma non è scontato.
Credo ci siano molte ragioni per questo. Conosco molti artisti che sono molto tirati e riservati per quanto riguarda certe cose. Poi, tutti abbiamo delle riservatezze ma non credo dovrebbero mai limitare le proprie abilità a comunicare con le persone. L’arte è uno strumento molto potente per potersi esprimere e dire perché si è qui e si fa quel che si fa. Quando ero alla scuola d’arte c’era un corso di Design Major e una delle cose che più mi piacevano di quel corso era il momento in cui si dovevano spiegare le scelte del processo creativo che era alla base dell’opera d’arte realizzata. Queste spiegazioni dovevano essere date illustrando in modo intelligente e chiaro le motivazioni di determinate scelte stilistiche. Quando invece frequentavo Fine Art, tutto si basava su un postulato di ciò che si faceva, senza entrare in merito, non c’era troppa conversazione sul processo artistico. Quello che il corso di Design Major mi ha insegnato è stato il fatto di dover spiegare coerentemente il processo creativo. Questo mi ha dato consapevolezza delle mie capacità perché mi ha aiutato in quanto artista a comprendere il punto da dove partire e quello dove voglio arrivare; come da A si arriva a Z e come funziona nel tragitto, nel mio caso parlare di arte e musica e spiegare le mie scelte. Magari possono anche essere generalità in alcuni casi e non essere necessariamente super rifinite, anzi possono anche essere trivialmente basiche, ma è comunque importante parlarne. Parlarne aiuta le persone a capire il processo, di cosa siamo in quanto artisti e ho imparato, anni fa a scuola, che ci sono persone che hanno più abilità nel comunicare. Altre no, ma penso non ci si nasca con questa dote e che sia comunque necessario lavorarci ed essere anche confidenti in quello che si sta facendo, credere in se stessi. Penso anche però che ci siano delle persone che non sono confidenti in quello che creano e ci sono un infinità di ragioni per questo: mancanza di fiducia in se stessi o negli altri. Poi, puoi anche fare tutto il rumore che vuoi sul palco, ma oltre quello non c’è niente dietro. Non voglio giudicare però, ognuno è com’è. C’è chi recita delle parti e si crea dei personaggi. Per me conta la sostanza, ha sempre contato la sostanza. Tutto ciò che mi è sempre piaciuto, sia negli artisti che nelle persone e in qualsiasi cosa in generale, è la sostanza alla base. Questo vale anche per le persone con cui lavoro; quando eravamo ragazzi e abbiamo iniziato, questo è stato il nostro punto di riferimento più importante che ci ha aiutati a definire noi stessi nell’insieme e cercare di trovare un nostro approccio.

Ed è probabilmente quello che vi ha tenuti uniti fino a questo punto: l’avere un punto di appoggio comune, oltre ovviamente al rispetto che riservate l’uno per l’altro.
Sai, a volte non importa se si è in 10 persone in una stanza o in 100, ma il fatto che ci sia qualcosa che permetta di connettere le persone a una cosa di più grande. Il fatto che sei venuta qui ad esempio e hai impiegato il tuo tempo con me a parlare è fantastico; il fatto che lo abbia voluto condividere con me il tuo tempo, merita rispetto da parte mia. A volte capita che delle persone lascino il nostro pubblico, ma bisogna essere realistici e comprendere che ciò può accadere, non si può essere esaustivi con tutti. Per cui, con chi dedica se stesso a venire verso di noi non c’è ragione per cui io non debba essere infinitamente grato a loro.

Non è scontato per un artista comprendere questo.
Io cerco sempre di trattare le persone come vorrei che loro trattassero me. Sai, tutti facciamo degli errori nella vita e sono sicuro che anche io ne ho fatti molti, ma cerco sempre di dare il meglio di me e cercare di trarre il meglio dagli altri.

Il documentario su di te, “Rungs in a Ladder” (2013) è stato molto interessante. Come è nata l’idea?
È stata l’idea di un mio amico (Ian McFarland, ndr) ed e stata un’esperienza strana farmi seguire da persone che mi filmavano di continuo; non sono abituato, ma per fortuna conoscevo tutti i registi e quindi non è stato cosi tanto assurdo. Strano ma bello.

Passiamo ora al live. Come ti prepari per l’esibizione di solito?
Mmm, è difficile, ma quando siamo in tour cerchiamo sempre di avere più tempo possibile per riposarci. Non siamo festaioli e non cazzeggiamo in giro, prendiamo sul serio quello che facciamo anche se a volte ovviamente ci si sente un po’ privi di forze, un po’ anche perché è da tanto che facciamo questo mestiere. Ma sì, il nostro segreto è tanto riposo, idratazione, e avere un senso del posto dove si è. Quando sei in tour può essere difficile a volte avere i propri spazi, siamo in otto e dobbiamo convivere nelle ristrettezze del bus, viaggiare di notte per 10-12 ore, talvolta anche 15. Ma va bene, fa parte del nostro mestiere.

Da dove venite ora? Bologna, no?
Sì, ieri Bologna. Abbiamo iniziato da Parigi, poi Monaco e poi qui in Italia. Può essere molto più stressante, ma va bene.

Siete esseri umani, indipendentemente da tutto, immagino sia complicato.
Sì, bisogna ascoltare il proprio corpo per poter essere sicuri di essere in grado di suonare. Ci sono band, ad esempio, che soffrono molto il jet lag ed è molto difficile per loro avere a che fare con lo show. Altri invece vanno a feste tutta la notte e non ascoltano il loro corpo. Invece bisogna farlo e avere coscienza di se stessi e dei propri limiti. Poi ci sono giorni in cui non ti senti al massimo, alcuni in cui sei al 100%, altri in cui in sei al 70%, ma devi sempre cercare di dare il massimo. Certamente ora mi sento più in salute rispetto ad altri tour (di recente è stato operato ad un problema alle ginocchia che aveva dall’adolescenza, ndr). È una questione di essere consapevoli e sapere ciò di cui si ha bisogno in termini fisici. Per cui, bere bere bere e riposarsi. Io amo il caffè ad esempio ma non riesco a berlo quando sono in tour perché mi disidrata troppo.

Davvero? Non lo sapevo. Io sono drogata di caffè ad esempio e se non lo bevo ho forti mal di testa.
Sì, per me funziona cosi, ognuno reagisce al caffè in modo diverso, io ho imparato che in queste circostanze non posso berlo. Penso sia anche psicosomatico per me. Forse c’è una ragione chimica invece per il mal di testa, anche mia moglie ha forti emicranie come te ed è vero, lo vedo. Io no, se sono occupato a fare altre cose non importa se bevo o non bevo caffè.

Che consigli vorresti dare a musicisti più giovani che ti prendono come modello?
A volte mi chiedono come mi esca questa voce: non parlo forte per non perderla e bevo tantissima acqua. Che poi non mi piace neanche bere l’acqua, ma so che devo farlo. Devo mangiare bene e riposare. Poi mi dicono “tutto qui?”. Sì, tutto qui, ma solo questo però. Bisogna essere molto restrittivi quando sei in tour. Questo è il mestiere e così va fatto se lo si vuole fare bene.

In parte, torniamo a ciò che abbiamo detto all’inizio di questa chiacchierata. Si tratta di raggiungere quel grado di maturità per comprendere se stessi e i propri limiti. In questo modo la vedi l’oscurità dentro di te e capisci quello che sei.
Sì, e c’è bisogno di tempo per raggiungere questo punto. A volte sei talmente tanto eccitato del fatto di essere in tour che non ti sembra vero e vuoi vedere i posti, visitare la città, andare in giro per ore, ma poi diventi esausto e senza le forze per suonare. Siamo stati in tour con band che non chiudevano mai un occhio e poi si addormentavano letteralmente durante i set. A volte uscivano con 4 membri anziché 5 perché non riuscivano a far stare in piedi uno dei componenti. Questo per me e imbarazzante! Non lo farei mai io né per me e né per i ragazzi della mia band; non bisogna mai dare per scontato quello che si costruisce insieme. Tutti facciamo degli sbagli immaturi qualche vola, ma poi bisogna riprendersi ed essere presenti nel vero senso della parola.

Grazie ancora tantissimo per l’intervista. Mi ha fatto piacere conoscerti.
Il piacere è stato il mio. Grazie a te!

Intervista a cura di Francesca Mastracci

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