Intervista – Spanish Love Songs

Intervista a cura di Francesca Mastracci

No Joy è il titolo del quarto full-length degli SPANISH LOVE SONGS, la band emo-alt-punk di Los Angeles che si è costruita una sua personalissima identità sonora fin dagli esordi con Giant Sings The Blues (2015) senza scendere mai a compromessi. Il loro lirismo esistenziale scava nel profondo tanto da toccare le corde più recondite nell’animo di chi ascolta, delineando in maniera estremamente nitida sentimenti che lambiscono depressione, perdita, disagio. Ogni disco è il risultato di un loro intimo modo di articolare le risposte a tutte quelle ineludibili domande che pone la vita e affrontare, così, le proprie tragedie personali.

Nonostante il titolo, il disco (il secondo sotto l’egida di Pure Noise Records dopo il prodigioso Brave Faces Everyone del 2020) viene presentato dal quintetto come un racconto a più capitoli incentrato sull’amore e sulla ricerca di una gioia che ci consenta quantomeno di andare avanti, facendoci sentire vivi nonostante tutto, nella privazione dal resto che non lo è.

A livello sonoro, la raccolta si presenta come la più morbida di tutto il catalogo della band, una pastiche dai toni sicuramente più accattivanti rispetto alle produzioni passate, tra sintetizzazioni new wave e svolazzi pop, non perdendo mai, però, quell’impronta punk-rock e quella malinconia squisitamente emo che li ha sempre contraddistinti.

In vista dell’uscita del disco, abbiamo avuto modo di scambiare qualche considerazione insieme a Dylan Slocum, cantante e chitarrista della band, sul loro ultimo lavoro.

ph: Hannah Hall

Ciao, iniziamo con una domanda scontata ma poco nota: da dove viene il nome Spanish Love Songs, come lo avete scelto? Lo scegliereste ancora oggi?

In realtà questa domanda emerge spesso e abbiamo realizzato un intero episodio podcast sul nostro Patreon a riguardo. La versione in breve è questa: abbiamo preso il nome da uno strano annuncio che c’era sugli autobus a Los Angeles. Ad oggi ci va bene perché ormai siamo noi. Anche se a nessuno di noi piace davvero questo nome però.

 

Ora parliamo dell’ultimo disco. L’hai definito come la naturale evoluzione di ciò che avete fatto negli ultimi anni. Ritmicamente possiamo sentire molti cambiamenti (i sintetizzatori scintillanti, gli hook orecchiabili, ci sono anche degli applausi ad un certo punto, ma in generale c’è un uso diffuso di sfumature anthemiche). Cosa significa per te questa evoluzione?

È semplicemente l’espressione attuale  di  ciò che ci entusiasma in questo momento e della musica che ci interessa creare. Non era qualcosa che avevamo esplicitamente deciso di fare, è successo e basta: queste sono state le canzoni che che ne sono venute fuori dalla scrittura.

 

Come posizioneresti questo disco nella vostra discografia?

È il nostro miglior disco e quello di cui siamo più entusiasti. Ma ovviamente le persone possono etichettarlo come meglio credono.

 

Penso che l’album raggiunga una dicotomia quasi Smithiana tra melodie morbide e ballabili e testi incredibilmente profondi. Quanto è difficile scrivere testi che scavano così profondamente nell’anima? Penso che sia anche difficile per te performarli sul palco, o almeno catartico.

A questo punto è in gran parte un’abilità appresa. Potrebbe essere stato difficile quando ero più giovane e non sapevo bene cosa stavo facendo, ma alla fine è tutta narrazione ed è qualcosa su cui lavoro da circa 16 anni per migliorarmi sempre di più.

Una volta che la canzone è stata scritta e registrata, ne sono abbastanza distaccato. È come se fossi in una cover band che suona le nostre canzoni. È una performance alla fine della giornata. Sarebbe un vero inferno cercare di provare quelle stesse emozioni ogni volta che canto una canzone, e non sarebbe sostenibile.

 

A questo proposito penso che la tua voce sia così toccante perché sembra essere sempre sul punto di rompersi…

Questo a quanto pare è quello che emerge. Non so, ho imparato a cantare da Springsteen e Meat Loaf, quindi sto solo facendo del mio meglio.

 

Tra Brave Faces Everyone e No Joy, avete pubblicato l’EP di cover di Doom & Gloom Sessions. Come è stato collegato questo progetto al vostro Patreon?

Tutte le cover sono state originariamente pubblicate sul nostro Patreon come cover del mese. Ne abbiamo quasi 40 in giro adesso, e i pezzi che abbiamo inserito nell’EP sono quelli che ci sono piaciuti di più.

 

Una cosa che ho sempre apprezzato molto dei vostri testi sono i continui riferimenti intertestuali che fate collegando tra loro più canzoni (sia dello stesso disco che di brani precedenti). È un espediente retorico che in un certo senso fornisce una visione dell’insieme, un’unità nella narrazione. Avresti immaginato che sarebbe diventato un marchio di fabbrica quando hai iniziato a realizzarlo?

No, è semplicemente qualcosa che ho fatto. Amo la letteratura consapevole e autoreferenziale e ho sempre apprezzato quando riscontravo le stesse tecniche di narrazione applicate nella scrittura di canzoni. Aiuta a creare un mondo al di là di ogni singola canzone, ed essere in grado di stabilire questa connessione è così gratificante. Sono assolutamente quel tipo di idiota a cui piace sorridere e infastidire sua moglie mentre spiega la scoperta dell’acqua calda. Vorrei non essere sempre stato così, ma lo sono.

 

È più faticoso o impegnativo?

Più di qualsiasi altra cosa è delirante. Ma è il miglior lavoro al mondo.

In No Joy, ad esempio, c’è la ripetizione dell’espressione “part of the equation” (nell’opener “Lifers” abbiamo “But don’t write your out of the quad” e nell’ultima canzone “Re-emerging Signs Of The Apocalypse” risulta essere “I can see the things I’ve wasted and that I’m a part of the equation”). Qual è questa equazione?

Sta all’ascoltatore decidere. Ci sono una miriade di sistemi nella vita di cui facciamo parte e di cui siamo responsabili. Questo album riguarda in gran parte il trovare il proprio posto in ognuno di essi.

 

Se non sbaglio, nella maggior parte dei vostri video ci siete voi che performate il pezzo (ad eccezione di “Self-destruction (as a sensible career choice)” che è stato girato durante la pandemia). Quelli che avete estratto da questo nuovo album hanno un’estetica luminosa che vira verso uno stile retrò. Vi fanno davvero sembrare degli adulti, sai.

Molto di questo dipende dai registi con cui lavoriamo. Ho diretto i nostri primi video insieme al mio partner regista a Los Angeles: avevamo un progetto che si occupava di produzioni specificatamente immature a basso costo in cui eravamo anche bravi. Da allora, con la band abbiamo avuto l’opportunità di lavorare con altre persone che hanno una visione diversa e un occhio decisamente migliore del nostro. Anche diventare una band più grande con un budget leggermente aumentato ha aiutato un po’ (piccola enfasi marginale).

Per quanto riguarda l’artwork in copertina con l’immagine sfocata di una ragazza e una mirrorball sullo sfondo, come lo avete scelto?

Il nostro amico Mitchell ha ascoltato l’album e ci ha inviato un catalogo di foto che pensava potessero funzionare. Quello che abbiamo scelto si è distinto quasi immediatamente. È facile rimuginare eccessivamente sulle opere d’arte, per questo motivo cerchiamo di prendere decisioni istintive il più spesso possibile.

 

 Dal vostro merchandise online ho trovato un maglione raffigurante due fantasmi rispettivamente con i segni “no” e “joy” che si tengono per mano. È molto semplice ma penso che riassuma l’intero album: una parte negativa che cerca di andare d’accordo con una parte positiva. Dopotutto, “ It’ll be this bleak forever, but it is a way to live” (verso tratto da “Haunted” e richiamo a un verso di “Self Destruction (As a Sensible Career Choice)”, ndr), non è vero?

È un’ottima lettura. Devo dire che io l’ho sempre presentato come un album di canzoni d’amore.

 

Infine, c’è gioia?

Ovviamente! C’è sempre gioia. E c’è tristezza. Ma questa è la vita.

 

Spero di vedervi presto dal vivo. So che l’Italia non fa parte del vostro prossimo tour europeo. Forse vi raggiungerò da qualche altra parte. Dita incrociate. Grazie ancora.

Grazie a te.

 

 

 

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