Sigur Ros – Átta

Recensione a cura di Alessandra Sandroni

Un arcobaleno che brucia si staglia sul cielo limpido, sporcato solamente dal fumo causato dalla combustione. Per presentare il loro ottavo album in studio (come suggerisce il titolo stesso del disco che significa, semplicemente, “Otto”) i Sigur Ros hanno scelto un fotogramma dell’installazione artistica Rainbow, della connazionale Rùri: un’immagine potente e suggestiva, davvero bellissima.

Registrato fra gli Stati Uniti, Londra e la stessa Islanda, Átta arriva a rompere un silenzio discografico durato dieci anni facendolo, come sempre, senza preavviso. L’annuncio di un tour in compagnia della London Contemporary Orchestra per le date europee e della Wordless Music Orchestra per quelle nordamericane già aveva fatto ben sperare, fino all’annuncio improvviso del singolo, “Blóðberg”: la conferma che dopo questi anni tumultuosi i Sigur Ros sono pronti a tornare.

Hörður Óttarson

ph. Hörður Óttarson

Lo hanno fatto sperimentando come di consueto soluzioni nuove, che si distanziassero dai precedenti lavori. Influenzato con molta probabilità dall’uscita della band del batterista Orri Páll Dýrason e dal ritorno del polistrumentista Kjartan Sveinsson, “Átta” è caratterizzato da un sound intimo e minimale, elegante ed etereo. Alla quasi totale assenza di percussioni si sopperisce grazie alle dinamiche vocali di Jonsi che, insieme agli archi, vanno a spingere i brani sempre più in alto, per poi riportarli a terra con la stessa delicatezza con cui li avevano accompagnati all’ascesa. Al contrario del precedente “Kveikur” la sezione ritmica di “Atta” è davvero scarna, se non per i guizzi su “Kletturn” e “Gold”, i due brani in cui peraltro si fa un utilizzo più audace dell’Orchestra che, fino a quel momento, è quasi tenuta con il freno a mano. Se con l’introduttiva “Glóð” si rischia di essere fuorviati dagli ammiccamenti elettronici e dalla voce mascherata è con il primo singolo estratto che si entra nell’anima del disco. Prendendo inspirazione nel nome da una pianta di timo selvatico originaria dell’Islanda (che si traduce letteralmente con “Pietra di sangue”),”Blóðberg” è un brano che sboccia in bellezza e causa pelle d’oca.

Lo accompagna un video apocalittico in cui Jonsi ha voluto esprimere la preoccupazione maturata in questi anni per i cambiamenti climatici: un lungo piano sequenza ci mostra un deserto dove gli unici contorni che si notano sono quelli di alcuni alberi ormai completamente secchi e ammassi di corpi stesi sulla sabbia, privi di vita. E forse in queste immagini è racchiuso l’intero significato di questo disco, in cui è palpabile l’intento dei Sigur Ros di abbandonare tutto il superfluo per concentrarsi sull’essenziale, come il silenzio. Ogni singolo brano inizia e finisce con qualche istante di totale assenza di suono. Si entra e si esce dai brani in una sorta di rituale ipnotico che è una carezza, un invito velato all’ascolto attento e concentrato, alla catarsi.

L’attenzione che i Sigur Ros pongono sui singoli elementi è la chiave di volta di un disco estremamente scarno e raffinato, introspettivo. Un’altra conferma che a Jonsi e compagni è praticamente impossibile far ripetere lo stesso disco due volte, ed altrettanto difficile che non ne esca qualcosa di, semplicemente, bello.

Tracklist

1. Glóð
2. Blóðberg
3. Skel
4. Klettur
5. Mór
6. Andrá
7. Gold
8. Ylur
9. Fall
10. 8

Voto: 8

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