Steven Wilson – The Harmony Codex

Recensione a cura di Davide Capuano

ph Hajo Mueller

Provare a prevedere la prossima mossa di Steven Wilson è diventato davvero difficile dal momento in cui il suo nome si è staccato dalla colossale ala dei Porcupine Tree per avviare un’ambiziosa carriera solista. Questa volta gli elementi di base permettevano poco più di una scommessa alla cieca: la svolta art rock di To The Bone, una virata superba ma ancora meno convincente su territori electro-pop con The Future Bites e un ritorno dei Porcupine Tree che aggiunge ben poco alla loro monumentale discografia, queste le sole carte scoperte dopo la sua opera maestra Hand. Cannot. Erase. (2014).

Abile nel lasciare indizi in superficie, Wilson ha nascosto ciò che si muoveva sottotraccia, circolando negli ambienti più tecnici: la sua ascesa da ingegnere del suono e remixer, che nel giro di qualche anno l’ha portato a vestire i panni del restauratore maniacale, capace di dare nuovo smalto ai lavori di King Crimson, Yes, Tears for Fears, Chic, The Who, per citare alcuni di un’interminabile lista. Dai tempi dei Porcupine Tree il suo nome figura sotto la voce producer dei suoi stessi lavori che ultimamente, pur prendendo direzioni disorientanti per i fan, alzavano sempre di più l’asticella della qualità sonora. Ma la più immediata delle percezioni non sempre arriva ad elaborare fino al dettaglio dei titoli di coda, da cui il fatidico interrogativo: chi è Steven Wilson, ora che sembra aver dismesso i suoi più famosi panni da cantastorie malinconico del prog?

The Harmony Codex riesce finalmente a svelarci con immediata riconoscibilità l’ennesima nuova identità autoriale del Wilson cantautore, compositore, arrangiatore, multistrumentista e ingegnere dietro le quinte di questa ultima fatica, accompagnato da una lunga lista di collaboratori: le batterie di Craig Blundell e Pat Mastellotto, il Chapman stick di Nick Beggs e i fiati di Theo Travis per citare alcuni fedelissimi, la profonda voce di Ninet Tayeb. E ancora: Guy Pratt (Pink Floyd), Jason Coleman (The Cure), Samuel Fogarino (Interpol), Niko Tsonev, David Kollar, solo una parte del novero di turnisti di altissimo profilo accuratamente scelti dall’autore di Hemel Hempstead.

La memoria nostalgica dei suoi caratteristici granitici riff prog metal viene sradicata via dai primi beat di stampo industrial di “Inclination”: un attacco che fa presagire che la successiva ora abbondante di musica sarà un’altalena di sonorità, un viaggio intenso tra stacchi di silenzio, tappeti di synth e divagazioni chitarristiche, tutto incastonato in maniera coesa e organica con una produzione di primissimo livello. Wilson si è sempre tenuto alla larga dal considerarsi un virtuoso: il suo personale stile compositivo difficilmente si è accostato a queste derive di genere, ma con The Harmony Codex prosegue senza compromessi decidendo di mostrare appieno la sua abilità dietro il mixer, ora più che mai al suo apice. Così tra ballate di stampo pinkfloydiano da cui ha storicamente attinto in trent’anni di carriera (“What Life Brings”) e cavalcate progressive-jazz che richiamano la sua epoca più barocca (“Impossible Tightrope”), l’ascolto inizia a diventare un’esperienza incredibilmente coinvolgente tra effettistica e stratificazioni ricamate con eccellenza; la prima metà dell’album scorre in maniera orecchiabile ma intrigante, completata dal duetto con la cantante israeliana Ninet Tayeb nell’emozionante “Rock Bottom” e la trasversale “Economies of Scale”, scelta per essere il singolo di lancio, manifesto di questo nuovo capitolo.

Ma è la seconda parte del disco che invita l’ascoltatore a chiudere gli occhi e a muoversi tra le svariate stanze di questo album: l’oscurità neo-prog di “Beautiful Scarecrow”, il trip-hop di “Actual Brutal Facts” e le melodie di “Time is Running Out” (un classico del suo repertorio, reinventato in chiave elettronica); di mezzo un monolite di stampo ambient-minimalista come la title track, capace di trasportare in luoghi senza dimensioni di tempo e spazio e una chiusura, “Staircase”, che raccoglie il meglio della sua ricercata verve artistica per fonderlo in un brano di nove minuti e mezzo, dinamico ed emozionalmente impattante, con una coda capace di evocare il meraviglioso immaginario artistico di Blade Runner e delle musiche di Vangelis.

Con The Harmony Codex Steven Wilson svela la sua identità da demiurgo di universi musicali sognanti, incanalando sagacemente quelle spinte che lo avevano allontanato – non senza qualche fatica – da un progressive di nicchia, in un’opera la cui cura dei dettagli è degna di un pittore rinascimentale ma con un nucleo estetico accessibile ad una larga fascia di ascoltatori. Concepito per essere ‘cinema per le orecchie’ e progettato per la massima resa in Dolby Atmos, quest’album stabilisce un nuovo standard globale di hi-fi e rappresenta una pietra miliare nella sua carriera, in cui la lirica di Hand. Cannot. Erase. incontra l’estro di Insurgentes, illuminati dall’abilità di ingegnere del suono acquisita negli ultimi anni. Ora più che mai ci risulta difficile prevedere la sua prossima giocata, ma intanto possiamo goderci la consacrazione di un artista totale che nel superare le sue stesse barriere e il suo proverbiale citazionismo questa volta si è ritagliato un posto di rilievo tra le menti geniali ed eclettiche della musica contemporanea, ascrivendo a caratteri chiari il suo nome.

Tracklist:

  • Inclination
  • What Life Brings
  • Economies of Scale
  • Impossible Tightrope
  • Rock Bottom
  • Beautiful Scarecrow
  • The Harmony Codex
  • Time Is Running Out
  • Actual Brutal Facts
  • Staircase

Voto: 9

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *